80 anni dopo

Tra le commemorazioni di Auschwitz la storia ha fatto marcia indietro. Il museo e i sopravvissuti

Micol Flammini

"Auschwitz una volta creato non sparisce soltanto perché i nazisti hanno perso la guerra. Auschwitz è molto di più: è una possibilità dell’umanità, non è un’etichetta del Terzo Reich", dice il giornalista polacco Konstanty Gebert. La cerimonia per commemorare la liberazione del campo di sterminio

Brzezinka, dalla nostra inviata. Tornano nel campo di sterminio a cui sono sopravvissuti con la testa alta. Sono sempre meno i testimoni dell’Olocausto, le loro parole sono forti, raccontano, ma soprattutto ammoniscono. La cerimonia per commemorare gli 80 anni dalla liberazione di Auschwitz è stata organizzata dentro a un grande tendone sul territorio di quello che i nazisti avevano chiamato Auschwitz II - Birkenau. I sopravvissuti si avvicinano al podio che è stato preparato per i loro discorsi con le spalle dritte, rifiutano l’aiuto che gli viene offerto per essere accompagnati al leggio: questo per loro è il posto del dolore che corrode, della paura costante. Ma è anche il posto della sfida: “Non avrei mai permesso che mi vedessero piangere, avevo cinque anni e mezzo e pensavo che in quanto bambina ebrea sarebbe stato normale morire”, racconta Tova Friedman. La storia dell’Olocausto ce la restituiscono i sopravvissuti, ma è una storia di morte e di sterminio che per paradosso soltanto i vivi che l’hanno conosciuta possono raccontarci. Il discorso iniziale viene affidato a Marian Turski, giornalista sopravvissuto, ha novantotto anni, parla con difficoltà, lancia le parole fuori dalla bocca come se ogni suono fosse una conquista, ma conclude il suo intervento dicendo che è bene ricordare, ma è sterile farlo se non si pensa al domani e anche a quello che potrà accadere tra dieci anni.

 

Oggi Auschwitz con i suoi campi di concentramento e sterminio è un museo e questi anziani parlano davanti a una platea di istituzioni ma anche di cittadini, molti si sono radunati fuori dalla tenda, seguono la cerimonia in uno spazio aperto e freddo, sul prato tra una baracca e l’altra. In questo spazio si esamina la storia, ma sono proprio i sopravvissuti a ripetere: non guardatevi indietro, fissate avanti. “Ad Auschwitz abbiamo sbagliato a fare un memoriale – dice al Foglio il giornalista polacco Konstanty Gebert – come risultato abbiamo avuto che tutti lo percepiscono come un museo e un museo è un luogo sicuro in cui si va a vedere il passato. Invece no. Auschwitz una volta creato non sparisce soltanto perché i nazisti hanno perso la guerra. Auschwitz è molto di più: è una possibilità dell’umanità, non è un’etichetta del Terzo Reich. Si esce da un museo con un senso di orrore per il passato, ma non con il terrore del presente. Invece è così che si dovrebbe uscire da Auschwitz; terrorizzati”. Attorno a noi non ci sono persone terrorizzate, ci sono persone addolorate, curiose, serie, ci sono anche provocatori con la bandiera palestinese o nazionalisti polacchi che pensano che sia il momento di smetterla di parlare della Shoah perché mette la Polonia in cattiva luce.

 

Ci sono molti sentimenti, ma non c’è terrore e in questo, secondo Gebert, sta il pericolo più grande: noi umani, noi europei, noi occidentali ci sentiamo al sicuro. “Dopo la Seconda guerra mondiale abbiamo iniziato a vivere in una specie di finzione, illusi che la guerra sia qualcosa che riguarda gli altri, non noi. Sia relegata in altre epoche, non nella nostra. Ci pensiamo parte di un progresso che non fa marcia indietro. Quando ci hanno detto che la storia era finita, ci abbiamo creduto tutti, però ci siamo dimenticati di avvisare la diretta interessata, la storia, che quindi è tornata a farci visita, infuriata”. Il problema oggi è che continuiamo a sentirci al sicuro, fuori dalla storia, senza ammettere che il mondo sta facendo marcia indietro: “Tra il conflitto in Ucraina, quindi il ritorno della guerra in Europa, e in medio oriente dopo il 7 ottobre, non siamo ancora arrivati al punto di ammettere il nostro fallimento. Il giorno dell’80esimo anniversario di Auschwitz celebriamo la nostra sconfitta: non abbiamo imparato la lezione. Ed è accaduto perché abbiamo permesso che la memoria diventasse passato e invece il passato è un testo, si mette su una mensola insieme ad altri testi e in un’epoca in cui nessuno legge più, cosa se ne fa la gente di un testo?”. L’Olocausto non è arrivato all’improvviso, nemmeno le guerre arrivano all’improvviso, ci sono avvisaglie, segnali, violenze, ma per qualche ragione la tendenza dell’umanità è sempre quella di pensare che le cose non ci riguarderanno di persona. Anche l’Olocausto non è stato improvviso: “L’antisemitismo non è una forma di razzismo più grave delle altre – dice Gebert – sono tutte gravissime. Ma è l’unica che ha portato a uno sterminio di sei milioni di persone. Più una tragedia si allontana nel tempo, meno fa paura e il rischio è che vediamo accadere cose per le quali avevamo detto ‘mai più’. Con i conflitti accade lo stesso. Ricordo i miei amici di Sarajevo, quando ci fu la guerra. Continuavano a dire: ma no, non arriverà qui. Fino a quando non hanno visto un carro armato girare la torretta e distruggergli il salotto. Così è arrivata la storia”. 

 


Quando il regista ungherese László Nemes girò “Il figlio di Saul”, avvisò che nel suo film c’era spazio soltanto per i morti, perché i sopravvissuti servono a far sentire lo spettatore più sicuro, più a suo agio, ma non è così che è andata veramente, non è questa la storia dell’Olocausto, è come vogliamo che sia. Tova Friedman nel suo discorso grintoso davanti a capi di stato e di governo, re e regine, ha detto: “Siamo vittime di un vuoto morale, ma oggi siamo in dovere di spiegare cos’è l’odio”. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)