Palestinesi sfollati fanno rientro alle loro case nel nord della Striscia di Gaza (LaPresse) 

Fase fragile

È possibile portare avanti il negoziato tra i sabotaggi di Hamas? Dibattito con due esperti

Fiammetta Martegani

L’accordo è un percorso lungo e fragile. Hamas crea crisi giornaliere, ma Israele negozia per un nuovo assetto in medio oriente. Lianne Pollak-David: "Un’occasione per la stabilità regionale". Il generale Nuriel: "Hamas cercherà l’escalation, ma il compromesso sui due stati è indispensabile"

Tel Aviv. L’accordo tra Israele e Hamas è un percorso lungo e fragile. Gli israeliani aspettano il ritorno di novanta ostaggi, dei quali ventisei devono essere liberati dai terroristi in questa prima fase, diciotto dovrebbero essere vivi, secondo i nomi consegnati dai miliziani. Tre ostaggi, tra i quali Arabel Yehud, tenuta prigioniera dal Johad islamico, la soldatessa Agam Berger e un terzo ostaggio di cui non è stato fatto il nome saranno consegnati domani alla Croce Rossa e altri tre sabato prossimo. Gli abitanti di Gaza hanno iniziato a fare ritorno nel nord della Striscia, secondo i termini dell’accordo che Hamas ha già violato la scorsa settimana. Nessuno riesce a prevedere con chiarezza cosa accadrà e se inizierà il momento in cui si inizierà a discutere la seconda fase dell’accordo.

   
“Ci troviamo di fronte a un’opportunità storica per ricostruire un nuovo ordine regionale, attraverso una coalizione con gli alleati del Golfo. È un processo ancora lungo con un prezzo alto da pagare. Ma dobbiamo farlo sia per garantire la sicurezza di Israele, che per la stabilizzazione della regione”, sostiene Lianne Pollak-David, ex consigliere presso la presidenza del consiglio e membro del gruppo negoziale con i palestinesi, cofondatrice della Coalizione per la Sicurezza Regionale, istituzione creata da leader nei settori della sicurezza, della diplomazia e dell’high-tech, che operano per l’implementazione degli Accordi di Abramo. Pollak-David è fiduciosa: “Nel corso di queste prime sei settimane non mancheranno crisi, perché questo è il linguaggio con cui il gruppo terrorista è abituato a negoziare. Lo abbiamo visto ancora prima che diventasse effettivo il cessate il fuoco, quando hanno ritardato per ore la consegna dei nomi dei tre ostaggi. Fa parte della loro strategia del terrore e continueranno a farlo, sia per guadagnare tempo, sia per continuare una guerra che, ormai, è soprattutto di tipo mediatico, essendo stati sradicati dal punto di vista infrastrutturale”. La minaccia non farà che intensificarsi eppure, ribadisce, il processo di rimodellamento dell’intera regione è in corso già da mesi: “Con il progressivo isolamento – sia strategico sia diplomatico – dell’Iran e dei suoi proxy, è più facile immaginare un percorso di normalizzazione regionale, avendo come interlocutore alla Casa Bianca un presidente che ha tutto l’interesse a portare avanti una veloce implementazione dei rapporti diplomatici con i paesi del Golfo”. Una delle condizioni poste dai sauditi per la normalizzazione della regione è il riconoscimento di uno stato palestinese: “Non verrà costituito in un giorno, ma la sua esistenza era già prevista negli Accordi di Abramo siglati nel 2020, e ora più che mai risulta questo uno degli obiettivi fondamentali per garantire la sicurezza sia per gli israeliani sia per i palestinesi. I sauditi – continua Pollak-David - vogliono investire in prima persona in questo progetto, per questo sarà necessaria la loro presenza nella Striscia, per una ricostruzione non solo delle infrastrutture ma anche della società palestinese”. Una visione che, tuttavia, poco collima con la maggior parte dei membri dell’esecutivo in carica. Ma anche su questo l’analista si dichiara ottimista: “Questa coalizione non sarà al governo per sempre, e il primo ministro Benjamin Netanyahu, per sopravvivere politicamente, dovrà fare i conti con nuove alleanze. Sia perché gli verrà imposto dalla nuova Amministrazione Trump, sia perché, stando ai sondaggi, il 72 per cento del paese è favorevole agli accordi in corso e vuole portare a termine questo progetto. Nonostante tutte le difficoltà che ancora dovremo affrontare, questo è il momento di essere pragmatici e guardare avanti, con una prospettiva di lungo periodo”.

  
Più pessimista, invece, è la visione del generale Nitzan Nuriel, ex direttore dell'Ufficio antiterrorismo del Consiglio di sicurezza nazionale, ex vicecomandante della divisione Gaza dell'Idf e responsabile del fronte libanese durante la seconda guerra del Libano. Secondo il generale, Hamas proverà a rendere  questa prima fase insostenibile persino nel coordinamento degli aiuti umanitari per cercare di innescare una nuova escalation, e impedire una rapida ricostruzione: “L’unico modo per arginare il gruppo terrorista è riconsegnare l’enclave all’Autorità palestinese, operazione che implica anche il ritorno ai negoziati per i due stati: un compromesso necessario se si vuole isolare Hamas e assicurare una normalizzazione della regione”. Anche sul conflitto interno all’esecutivo Nuriel si dichiara meno ottimista rispetto a Pollak-David: “Superata la fase 1, Netanyahu potrebbe non portare avanti la 2, anche a costo di far crollare il governo e tornare alle elezioni, pur che ciò gli permetta di continuare la sua carriera politica e – appoggiato dalla nuova Amministrazione americana – la battaglia contro il nucleare iraniano. Va ricordato che Israele si trova a combattere su un terreno molto fragile che non è solo quello di Gaza, ma sono i  numerosi fronti da cui è minacciato: Iran, Libano, Yemen e Siria e Turchia che ancora non hanno chiaramente definito le proprie posizioni. Inoltre – aggiunge il generale, che ha servito anche come addetto militare presso l'ambasciata di Israele a Washington – nonostante il grande appoggio concesso da Trump, in questo momento il medio oriente non risulta una delle priorità per gli Stati Uniti”.

  

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