Tra le luci della protesta di Bratislava, dove non si sta più zitti
Il raduno in piazza della Libertà di migliaia di persone che si rifiutano di stare in silenzio per difendere la propria libertà sventolando le bandiere slovacche ed europee
Le manifestazioni in Slovacchia si svolgono ormai regolarmente e nelle ultime settimane sono state organizzate da un’associazione di volontari che si chiama Mier Ukrajine, Pace per l’Ucraina. La richiesta del permesso di manifestare è arrivata dopo il viaggio del premier, Robert Fico, a Mosca, nel dicembre scorso, e il conseguente blocco degli aiuti energetici all’Ucraina. I raduni nelle piazze sono sempre stati pacifici – le prossime manifestazioni sono programmate per venerdì 7 febbraio, in tutta la Slovacchia – ma Fico le ha definite il “Maidan slovacco”, riferendosi all’Euromaidan a Kyiv, quando le proteste pacifiche si trasformarono in uno scontro violento: i “cento celesti”, così vengono ricordate le persone uccise in piazza Maidan Nezalezhnosti dai cecchini, nel febbraio del 2014. Secondo il governo slovacco, come era già accaduto in Ucraina e come sta succedendo in Georgia, è in atto un tentativo di colpo di stato.
Venerdì scorso mi sono imbarcata per Bratislava. In piazza della Libertà si stavano radunando delle persone, l’inizio della manifestazione era previsto per le 17. Mentre l’hostess chiedeva di allacciare le cinture, scrivo un ultimo messaggio a Veronika. Ci siamo date appuntamento in piazza, vicino alla sede della Radio Slovacca. Spengo tutto, cerco una posizione comoda, ma sono stretta. Indosso vestiti pesanti per il freddo. Una donna al mio fianco guarda sul tablet un film con sottotitoli in cirillico. La settimana scorsa Tibor Gašpar, il vicepresidente del Parlamento, in una conferenza stampa ha dichiarato che la Slovacchia in futuro potrebbe uscire dall’Unione europea. Siamo dentro a un processo, ha detto, e non possiamo sapere dove ci porterà.
Sorvoliamo le Alpi, l’Austria è sotto di noi, sto andando alla manifestazione. Tanti miei amici vengono stasera in piazza. Nessuno vuole essere riportato indietro. Sono nervosa, non sono connessa e non posso scrivere a Veronika: sei già lì? Sette anni fa quando sono stati uccisi Jan e Martina, lui era un giornalista investigativo, lei la sua compagna, migliaia di persone erano scese in piazza e così Fico si era dimesso. Oggi dice che non lo farà e ci minaccia con il Maidan. Quando atterriamo mi tremano le gambe, il telefono è lento, ci mette interi minuti ad accedere alla rete. Esco dall’aereo, è un sollievo sentire l’aria fredda sulla faccia, ma non è rigida come pensavo, in ogni caso metto il cappello.
Cammino fino all’edificio dell’aeroporto, con la coda dell’occhio seguo la segnaletica per terra. Continuo a scrollare i social, ho già il feed pieno di foto della manifestazione. Quando raggiungo l’uscita, ricevo la chiamata del tassista. Avevo prenotato il trasporto in anticipo e in pochi minuti sono seduta in automobile. Gli dico dove voglio andare. Le strade che portano in Piazza della Libertà sono chiuse, mi avverte. Non è un problema qualche metro in più, scuoto la testa, lui non commenta e mette in moto. Mi lascia in via Karvaša, cammino quasi fino alla Radio, sento già le persone che parlano dal palco. Infilo il borsone di traverso per avere le mani libere e per distribuire il peso in modo più omogeneo. Trovo Veronika dietro a un’aiuola, vicino agli alberi. Mi spiega dopo che lì si sente più protetta. Le manifestazioni non le fanno bene, è dal 2018 che viene in piazza. Non replico, l’abbraccio, mi assicura che la troverò sempre lì e così vado un po’ più avanti.
Sul palco c’è uno striscione con la scritta “Noi siamo Europa”. Riconosco Bolek Polívka, il comico ceco che ripete la frase simbolo dell’89: la verità e l’amore vinceranno sulla menzogna e sull’odio, la piazza risponde con un boato. Mi guardo attorno, donne, uomini, giovani, vecchi, tutti sono rivolti verso il palco. Sopra le nostre teste sventolano bandiere, quella dell’Unione europea e quella slovacca. Provo a addentrarmi ancora di più, riesco a passare con facilità, la calca non è stretta, non c’è quel senso di soffocamento di una massa in agitazione, sono singole persone che però sono insieme. Mi fermo vicino a un uomo con un cappellino da baseball che tiene sopra la testa un cartellone con la scritta a pennarello: “Non siamo una colonia russa”. Sento che parla con una donna, le grida all’orecchio: sono nato qui, qui voglio anche morire, che vada via Fico con i suoi banditi. Incrocio lo sguardo di lei, può avere l’età di mia madre, mi sorride e poi gridiamo insieme con la folla: basta Fico, dost’ bolo Fica.
A un certo punto il palco si spegne, davanti e intorno a noi il buio, nemmeno i microfoni si sentono. D’istinto mi stringo nelle spalle, un’onda attraversa la piazza, ma subito dopo si accendono migliaia di luci, premo la torcia del telefono e lo porto in alto. E’ lì che mi rendo conto, in quell’attimo di silenzio, che siamo tanti e che siamo noi a illuminare la piazza. Non staremo zitti, è questo il grido che ora ripetiamo all’unisono, non staremo zitti. Gli occhi mi lacrimano e non è per il freddo.
Quando più tardi ritorna la corrente, sono di nuovo sotto l’albero con Veronika, ha le guance rosse e anche lei gli occhi lucidi, suona l’inno, questa volta non ci possono ignorare, mi dice. Ci chiedono di lasciare la piazza ordinatamente e con calma, cammino fino al Danubio, saluto la mia amica, prendo il tram numero 4, destinazione Karlova Ves, casa di mia madre. La città mi sembra diversa, gruppi di persone avvolti nelle bandiere, un ragazzo mi fa segno di vittoria con le dita. Gli rispondo con lo stesso gesto. A casa, mia madre mi accoglie con un lungo abbraccio, sessantamila, dice. Non capisco subito. L’hanno detto in tv?, le chiedo. No, mi risponde, in televisione hanno riferito che è stata una manifestazione degli ucraini.
Mentono come sempre, ma non m’importa, ho ancora la piazza dentro, ed è piena di torce. Il buio non mi spaventa.