Armi e negoziati legano Israele, Kyiv e le ambizioni di Trump

Micol Flammini

I Patriot dismessi da Tsahal arrivano in Ucraina. Per il capo della Casa Bianca è ormai impossibile separare i due conflitti. Il ritorno degli ostaggi previsto per oggi e Nentanyahu a Washington

Ieri novanta intercettori Patriot, arrivati in Polonia da Israele, sono stati consegnati all’Ucraina. I Patriot per Kyiv sono preziosi, perché permettono di proteggere le città dagli attacchi russi che vengono effettuati  utilizzando in modo combinato missili balistici, missili da crociera e droni. L’Ucraina non ha abbastanza difese aeree, soprattutto nelle aree fuori dalla capitale, così quando nell’aprile scorso Israele aveva annunciato che avrebbe smantellato il sistema Patriot, gli ucraini si sono rivolti al Pentagono per chiedere che gli intercettori che lo stato ebraico non avrebbe più usato venissero  consegnati a Kyiv. Israele non ne ha più bisogno, ha sviluppato delle sue armi di difesa aerea molto efficienti,  le batterie Patriot giacevano  nei depositi ormai da anni e venivano utilizzate per le esercitazioni dell’esercito. L’annuncio di dismettere i sistemi americani era arrivato dopo che l’Iran aveva lanciato contro le città israeliane un attacco combinato di missili e droni che era stato respinto da Tsahal e dagli alleati con la collaborazione di alcuni stati arabi. Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky  aveva sottolineato che quello è proprio il genere di attacco che le  città  del suo paese subiscono ogni settimana, ma a difenderle non c’è né una rete di protezione tanto capillare né un’alleanza di stati  disposta a entrare così tanto in azione contro la Russia. Zelensky ha cercato a più riprese contatti con Israele, che però ha preferito dare aiuto all’Ucraina  sotto traccia e quando ha acconsentito a mandare i suoi Patriot a Kyiv lo ha fatto  informando Mosca e facendo risultare la consegna come una transazione indiretta. La linea israeliana è: noi abbiamo dato i Patriot agli americani, che poi hanno deciso di mandarli agli ucraini, secondo un sistema di scambio che era già stato utilizzato per delle munizioni. L’arrivo dei Patriot è anche la prima consegna all’Ucraina che avviene da quando alla Casa Bianca c’è Donald Trump, anche se non è stata la sua Amministrazione a negoziare il passaggio da Gerusalemme a Kyiv. Da quando è diventato presidente, Trump ha dimostrato in modo molto attivo di volersi occupare dei due conflitti. Non ha interrotto l’attacco russo contro l’Ucraina in  ventiquattro ore, come promesso, ma ha cercato di alzare i toni con il presidente, Vladimir Putin, mettendolo davanti alla possibilità di un serio impegno americano per il tracollo dell’economia russa. Sono parole, non ci sono fatti, ma l’Amministrazione in azione si sta comportando, per ora, in modo diverso rispetto alle promesse elettorali di togliere ogni sostegno all’Ucraina. Con Israele Trump si comporta in modo molto diverso, il suo inviato speciale Steve Witkoff è in pianta stabile in medio oriente ed è stato il primo funzionario americano a entrare a Gaza dal 7 ottobre: è andato a supervisionare il corridoio Netzarim che gli abitanti della Striscia stanno attraversando per tornare al nord. Trump vuole che la guerra contro Hamas non riprenda, ha fatto capire a Israele che è pronto a sostenerlo sempre e comunque, ma non vuole un altro conflitto nella Striscia, dove il mantenimento del cessate il fuoco è legato al rispetto dell’accordo sugli ostaggi, su cui Hamas ha già fatto diverse violazioni. 
Domani i miliziani libereranno tre ostaggi: Arbel Yehud, Agam Berger e Gadi Moses, e altri cinque cittadini thailandesi che lavoravano nei kibbutz. Sabato ci sarà una nuova liberazione e poi inizierà la fase difficile in cui si dovrà negoziare la seconda fase dell’accordo. Nelle priorità di Trump, l’Ucraina e Israele occupano due posti molto diversi e lo aveva dimostrato già nel suo primo mandato, quando per lui Kyiv e Zelensky erano da usare per un ricatto contro Joe Biden (“Do me a favor”, chiese Trump al presidente ucraino dicendogli di indagare il figlio del suo sfidante alla Casa Bianca altrimenti non avrebbe ricevuto i lanciarazzi Javelin che attendeva), mentre Israele è il posto in cui il capo della Casa Bianca già al suo primo mandato voleva passare alla storia per aver portato la pace tramite la normalizzazione dei rapporti con i paesi arabi. Non è un caso se il primo leader straniero a essere invitato per una visita di stato a Washington è stato Benjamin Netanyahu: il primo ministro israeliano sarà alla Casa Bianca il 4 febbraio. 
 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)