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Gli effetti collaterali dei dazi che Trump non vuole vedere. E l'Ue deve stare in guardia

Lorenzo Borga

I paesi alleati colpiti dai dazi, come presto potrebbe capitare a quelli europei, dovranno ponderare bene le proprie risposte. Per non innescare fratricide guerre commerciali

Con Donald Trump, è tornato alla Casa Bianca il pensiero mercantilista. Vendere il più possibile, comprare il meno possibile, come se il benessere economico di una società si fondasse semplicemente sul suo conto economico. Se fino al decennio scorso c’era chi lamentava l’estremo cinismo della misurazione del pil, ora c’è chi si ossessiona sulla mera partita doppia import-export.


Il presidente americano apostrofa come “truffatori” i paesi che vendono agli Stati Uniti più di quanto comprano. In cima alla lista ovviamente l’Unione Europea, che infatti è accusata da Trump di “trattare molto male” gli americani e i loro prodotti causando un deficit commerciale di poco meno di 200 miliardi di dollari all’anno.

  
Trump crede genuinamente che i dazi possano riequilibrare la bilancia commerciale americana, con due conseguenze: incrementare gli introiti fiscali dalle tariffe, finanziando così i nuovi tagli delle tasse sul reddito, e riportare numerose aziende a creare posti di lavoro negli Stati Uniti (che hanno in realtà il problema opposto: non trovano manodopera). Ma in realtà i dazi potrebbero causare non pochi grattacapi all’economia americana.


Prima di tutto i costi dei dazi ricadrebbero anche sui consumatori americani. Quanto dipenderà dalle alternative: le imprese americane importatrici riusciranno trovare altri fornitori, negli Stati Uniti o altrove, che offrano gli stessi prodotti a prezzi competitivi? Se così fosse, l’inflazione negli Stati Uniti non subirebbe alcun impatto. Ma in un’economia tanto integrata come quella del 2025, dazi su paesi come il Messico, il Canada e la Cina – vale a dire i primi tre paesi fornitori degli Usa – difficilmente non vi sarebbero ripercussioni. Secondo Goldman Sachs ogni punto percentuale di dazi in più sulle merci canadesi e messicane comporterebbe un aumento dell’inflazione americana dello 0,1 per cento. Tenendo conto delle esenzioni previste da Trump, l’impatto sarebbe quindi vicino a un punto percentuale di rincari. Sufficienti per fermare, come già avvenuto, la discesa dei tassi di interesse della Federal Reserve. Secondo il think tank indipendente Tax Foundation i dazi sui tre principali partner commerciali degli Stati Uniti causerebbero un rincaro di 830 dollari a famiglia in un anno. Il pensiero mercantilista ha portato Trump a proporre dazi perfino su prodotti con bassa o nulla elasticità di prezzo, come i microchip di Taiwan, o con un mercato internazionale efficiente, come il petrolio. Se dovessero entrare in vigore, non ci sarebbe alcuna possibilità per i consumatori americani se non pagare di più per gli stessi prodotti.

  
Non c’è dubbio che gli Stati Uniti mantengano una posizione commerciale in via di peggioramento. Nonostante l’esplosione dell’export energetico, il deficit commerciale americano si appesantisce sempre più. Neanche i servizi – pensiamo a tutta la tecnologia che acquistiamo dagli Usa – riesce a riequilibrarlo. Ma questo è conseguenza di due fattori che non ci si attende scompariranno con Trump 2.0. Prima di tutto il deficit di bilancio, sopra il sei per cento per il secondo anno consecutivo senza previsioni di miglioramento visti i rinnovati tagli alle tasse promessi da Trump. E in secondo luogo la forza del dollaro, che anzi il presidente vuole preservare impedendo qualsiasi perdita di centralità del biglietto verde, oggi dominante nel mercato valutario. Ma un dollaro forte favorisce le importazioni e sfavorisce le esportazioni, in una paradossale eterogenesi dei fini. Il dollar index si è rafforzato di quasi il 5 per cento dall’elezione di Donald Trump. Il deficit commerciale americano è quindi la diretta conseguenza della forza economica e politica a stelle e strisce, e degli enormi flussi di capitali in arrivo da tutto il mondo grazie al mercato finanziario Usa liquido ed efficiente, che permette a Washington di mantenere un bilancio al di sopra delle proprie possibilità economiche, e lo stesso alle iper-indebitate famiglie statunitensi.


Un sistema commerciale il più possibile libero da frizioni e dazi è ancora auspicabile. Senza togliere centralità alla ricerca di competitività economica dei diversi blocchi, tornata al centro delle agende dei policy maker. Per quanto la pandemia prima e la guerra in Ucraina poi abbiano risvegliato le coscienze sulla necessità di garantirsi approvvigionamenti sicuri e da partner fidati, anche al costo di pagare prezzi più alti, l’aspirazione verso il libero commercio è ciò che ha reso i paesi occidentali l’area economica sviluppata quale è oggi. E ha fornito gli strumenti a buona parte del resto del mondo per uscire dalla povertà e dal sottosviluppo. Ecco perché i paesi alleati colpiti dai dazi, come presto potrebbe capitare all’Unione Europea, dovranno ponderare bene le proprie risposte. Per non innescare fratricide guerre commerciali.
 

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