Arbel Yehoud e Gadi Mozes (Ansa)

Dalle gabbie ai soprusi fisici e psicologici: i 482 giorni di agonia a Gaza per gli israeliani

Giulio Meotti

Gadi Mozes, Arbel Yehoud, Keith Siegel, e altri ostaggi sono stati liberati da Hamas ma ora devono fare i conti con le cicatrici lasciate dalle terribili condizioni di prigionia a cui sono stati sottoposti da Hamas. La tortura politicamente corretta sugli ebrei

Gadi Mozes, l’israeliano che ha compiuto ottant’anni in in mano a Hamas e rilasciato giovedì scorso, è stato tenuto completamente da solo per tutti i 482 giorni in cui è rimasto ostaggio a Gaza. Quando ha incontrato Arbel Yehoud, anche lei rilasciata giovedì, era la prima volta che Mozes vedeva un altro ostaggio israeliano. Per i primi settanta giorni ostaggio, Mozes è stato in isolamento, chiuso in una stanza buia. Mozes ha scoperto per caso, mentre era a Gaza, che sua moglie Efrat era stata assassinata nel kibbutz.
  
Per il resto del tempo, Mozes è stato tenuto in una stanza di due metri per due. Camminava avanti e indietro nella stanza un certo numero di volte al giorno contando le piastrelle del pavimento e intratteneva conversazioni immaginarie coi suoi cari. Teneva un diario che gli è stato tolto da Hamas prima che lo consegnassero alla Croce Rossa. Ogni cinque giorni gli veniva data una bacinella di acqua per lavarsi e una tazza. Da Hamas, Mozes ha ottenuto un libro per leggere, sull’islam. In una occasione, è stato tenuto per dodici ore dentro un furgoncino soffocante per il caldo, sotto gli uffici della Croce Rossa a Gaza. Pensava che sarebbe stato rilasciato, ma era soltanto uno spostamento. Mozes ha detto ai terroristi che “quando la guerra finirà e ci sarà la pace”, tornerà a Gaza per insegnare loro a coltivare. Ieri la stampa israeliana ha reso conto della condizione degli ostaggi. I cinque thailandesi che lavoravano nei kibbutz hanno detto di essere stati tenuti in tunnel dove facevano fatica a respirare e non ricevevano sempre il cibo. Keith Siegel, vegetariano, è stato costretto a mangiare carne.

Hamas non solo ha picchiato e messo in gabbia Yarden Bibas (come Ofer Calderon), ma lo ha anche torturato psicologicamente con aggiornamenti sulla sorte della moglie e dei loro due bambini: un giorno erano vivi, il giorno dopo erano stati assassinati da Israele, solo per essere rianimati con rassicurazioni sul loro benessere, tutto daccapo.  Con il padre vivo e i figli e la madre scomparsi (Yarden è tornato a casa ma senza famiglia), gli israeliani si stanno preparando per un inimmaginabile requiem per i due piccoli Bibas scomparsi col pigiama di Batman. Tra i prossimi a uscire da Gaza c’è Eli Sharabi, il fratello Yossi assassinato durante la prigionia a Gaza, come la moglie Lian, e le loro due figlie, Yahel e Noya. Gli ostaggi hanno cercato di preservare la loro identità e fede ebraiche anche sotto costrizione. Si sono rifiutati di mangiare pane lievitato durante la Pasqua, hanno tentato di digiunare durante Yom Kippur e Agam Berger ha persino osservato lo Shabbat. Quando è stata liberata, Berger ha detto: “Ho scelto la via della fede e nella fede sono tornata”. Berger si è rifiutata di accettare un Corano dai rapitori. Secondo il canale N12 News, gli ostaggi erano costretti a indossare le tradizionali galabiya e, invece di fare la doccia, venivano forniti loro  “panni imbevuti di acqua fredda”. Emily Damari è tornata senza due dita, Daniella Gilboa con un proiettile  nella gamba. 


In alcuni casi, gli ostaggi sono stati persino costretti a registrare messaggi di addio, senza sapere se sarebbero stati uccisi o rilasciati. Liri Albag, rilasciata nella seconda tregua tra Israele e Hamas dopo 477 giorni a Gaza, racconta: “In uno dei posti dove eravamo segregate, c’erano anche un bambino di otto anni e dei bambini di quattro anni che ci insultavano tutto il tempo, ‘gli ebrei’”. Amit Soussana, che al New York Times aveva raccontato dello stupro subìto da uno dei suoi carcerieri, rivela che un altro carceriere, che si faceva chiamare “Amir”, aveva una figlia che era stata operata in un ospedale israeliano per un cancro. Amir ha legato Soussana mani e piedi a una sbarra per picchiarla con il calcio del fucile. Ofelia Roitman, 78 anni, ha raccontato: “Quando mi hanno rapita mi avevano sparato ed ero ferita a una mano. Arrivati a Gaza mi hanno portata in uno dei tunnel. C’era una stanza attrezzata come una sorta di ambulatorio. La dottoressa (palestinese) ha detto, in inglese, ‘l’ebrea non la curo’”. 
Tutto bene, è soltanto la tortura politicamente corretta.

Di più su questi argomenti:
  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.