La fine del neoliberismo ha il volto di Trump

Luciano Capone e Carlo Stagnaro

La svolta protezionista degli Stati Uniti è il prodotto di anni di grida contro la globalizzazione e il libero scambio. Ora che tutti si rendono conto di quanto siano dannosi i dazi, l'Europa dovrebbe cambiare strada e aprirsi a nuovi accordi commerciali

Dopo un paio di decenni a invocarla, la fine del neoliberismo è arrivata anche se non è esattamente come se l’immaginava il movimento no global. Non viene dal sud del mondo e non ha le sembianze di un leader terzomondista, ma parte dal centro dell’Impero e ha il volto di Donald Trump. 

Diversamente dal suo primo mandato, nel quale agli eccessi verbali non sempre faceva seguire gli atti, adesso il presidente degli Stati Uniti non ha perso tempo. La minaccia di colpire, a suon di dazi, tutti i partner commerciali ha come vittime iniziali nazioni alleate degli Stati Uniti come Canada, Messico e Unione europea.

In parte è uno strumento negoziale per risolvere altre questioni quali l’immigrazione e la sicurezza (il Messico e il Canada hanno ottenuto la sospensione di un mese dei dazi, in cambio dell’impegno a controllare meglio i confini bloccando il flusso di immigrati e fentanyl), ma in generale Trump sembra convinto di una politica commerciale fortemente protezionista. È una delle poche cose in cui crede davvero. “Dazio è la parola più bella del dizionario, dopo religione e amore”, ha dichiarato più volte il presidente americano. Nonostante le sue tante contraddizioni, questo è forse l’unico tema su cui ha mantenuto una linea estremamente coerente, come conferma il richiamo nel discorso d’insediamento a William McKinley, l’ex presidente americano che da senatore – a fine Ottocento – firmò un forte incremento dei dazi.

Trump crede che una politica protezionistica possa coniugare due obiettivi per lui fondamentali: rafforzare l’industria domestica, difendendola dalla concorrenza estera e contemporaneamente sostenendola nelle esportazioni; e generare un cospicuo gettito fiscale con cui alimentare la spesa pubblica o tagliare le tasse. La moderna ricerca economica – ma anche quella antica, da Adam Smith a David Ricardo – mostra che nessuna di queste due tesi è fondata: il commercio internazionale produce benefici per tutti coloro che partecipano agli scambi. Un grande presidente conservatore come Ronald Reagan – pure assai pragmatico in materia commerciale – ammoniva contro “i demagoghi pronti a dichiarare una guerra commerciale contro i nostri amici, indebolendo la nostra economia, la nostra sicurezza nazionale e l’intero mondo libero, il tutto mentre sventolano cinicamente la bandiera americana”. 

È vero che nel passato i dazi costituivano la principale voce del bilancio federale. Fino alla fine del XIX secolo ne coprivano oltre il 90%, contro il 2% attuale: ma tale crollo non è legato all’apertura delle frontiere agli scambi, quanto al fatto che è enormemente cresciuta la complessità dell’economia, la sua capacità di generare reddito e conseguentemente l’efficacia dello stato di intercettarne una quota sempre maggiore per svolgere un’infinità di funzioni un tempo inimmaginabili. Il problema è che, sebbene gli effetti di lungo termine delle politiche trumpiane siano chiari a tutti gli esperti, prima di manifestarsi richiedono tempo. Inoltre le dimensioni dell’economia statunitense finiranno per mascherarne in parte le conseguenze. Quindi non ci si può attendere che Trump o i suoi elettori si ricredano presto.

La soluzione può venire da una reazione da parte degli altri paesi. La risposta immediata, politicamente più ovvia, è rispondere con misure ritorsive, ma aggiungere dazi a dazi non farebbe che peggiorare la situazione per tutti. Sfortunatamente, le parole d’ordine con cui oggi Trump sconvolge il mondo sono state spesso utilizzate anche dai suoi avversari. E, usandole, essi hanno contribuito a indebolire la posizione attuale dei rispettivi paesi. Per esempio, Trump sostiene che l’apertura al commercio internazionale danneggia i lavoratori. È proprio con questo argomento che in Europa, soprattutto a sinistra, è stata respinta l’ambizione di Barack Obama di negoziare un trattato di libero scambio euroatlantico (il cosiddetto Ttip), formalmente affossato da Trump nel 2017, ma sostanzialmente ucciso prima dai governi europei. Anche il Ceta (il trattato di libero scambio tra Ue e Canada) è stato a lungo osteggiato e mai ratificato, nonostante abbia dato risultati più che positivi nella parte già in vigore. L’accordo con il Mercosur ha subìto un trattamento persino peggiore: un ventennio di negoziati con i paesi del Sud America e ora, dopo la firma dell’accordo, in Europa c’è il veto da parte della Francia e di altri paesi di tra cui l’Italia con argomenti analoghi a quelli di Trump. 

Oggi in Europa si critica l’atteggiamento naif con cui Trump vuole finanziare il bilancio pubblico attraverso i dazi, ma è l’analoga strategia perseguita in Europa (Italia inclusa) attraverso strumenti come la web tax e la global minimum tax. L’idea politica di fondo è sempre quella di introdurre una tassa che sarà pagata da soggetti e imprese estere, come se in tal modo si potesse concedere ai contribuenti un “pasto gratis”. Ma non è e non può essere così: poiché l’economia globale è interconnessa, tutti i vincoli agli scambi o i tentativi di estrarre valore da chi vi prende parte determinano frizioni, reazioni e un impoverimento generalizzato. Tutti ne fanno le spese, indipendentemente da chi, materialmente, viene messo nel mirino del fisco. 

Insomma: l’Europa dovrebbe interrogare se stessa su come cambiare strada. Proprio l’atteggiamento prepotente della Casa Bianca costituisce uno straordinario argomento per stringere legami commerciali con tutti gli altri. Forse si penserà a misure ritorsive contro gli Stati Uniti almeno come forma di deterrenza, visto che questo è il linguaggio che Trump parla e comprende. Ma allo stesso tempo, anziché chiudersi su se stessa, l’Europa dovrà pensare ad aprirsi. Come scriveva l’illuminista scozzese David Hume nel 1742, “mi spingerò ad affermare, non solo come essere umano ma anche come suddito britannico, che prego perché fiorisca il commercio in Germania, Spagna, Italia e persino in Francia”.

Aveva chiarissimo che, come la crescita dell’uno beneficia gli altri, lo stesso vale per le difficoltà. Nessuno ha alcun beneficio dal causare il declino dei propri partner commerciali. Anni di grida contro il neoliberismo e contro la globalizzazione ci hanno regalato Trump. Forse non sarebbe male rivalutare l’idea che il commercio internazionale sia uno strumento di crescita e di pace, in fondo è questo pensiero che ha reso grande l’Europa.

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