La Cina incassa le minacce di Trump, ma sa reagire

Giulia Pompili

Xi jinping può ottenere moltissimo negoziando sui dazi della nuova Amministrazione americana. La telefonata che potrebbe cambiare tutto

Ieri la Repubblica popolare cinese ha risposto ai dazi del 10 per cento imposti dall’Amministrazione Trump su tutte le importazioni dalla Cina, entrati in vigore la scorsa mezzanotte. Ed è iniziato così il nuovo balletto delle scaramucce commerciali fra le prime due economie del mondo – nella teoria dei giochi e in politica internazionale si chiama tit for tat. C’è qualcosa di diverso, però, nelle relazioni fra Washington e Pechino rispetto all’inizio del 2018, perché questa volta il presidente americano Donald Trump vuole negoziare con il leader cinese Xi Jinping, non prende alcuna decisione definitiva in vista di una telefonata, di un quid pro quo, e lo dimostra l’atteggiamento particolarmente morbido avuto con la Cina rispetto a sette anni fa, anche e soprattutto nella retorica pubblica. 

 


Ieri la commissione per le Tariffe doganali del Consiglio di stato di Pechino ha annunciato a sua volta nuovi dazi – del 15 per cento, poco sopra quelli di Trump – sulle importazioni dall’America di petrolio greggio, macchinari agricoli, veicoli a grande cilindrata, camion e altri beni. Per aumentare, anche se di poco, la reazione, si è attivato pure il ministero del Commercio di Pechino, che ha imposto controlli sulle esportazioni verso gli Stati Uniti di cinque minerali considerati critici, come il tungsteno e il tellurio, usati in diversi settori, dalla Difesa all’energia green. Non solo: come risposta all’obiettivo trumpiano di limitare lo strapotere di mercato dei colossi fast fashion cinesi come Shein e Temu, Pechino ha messo la Pvh – società americana di abbigliamento che possiede marchi come Tommy Hilfiger e Calvin Klein – nell’elenco delle aziende straniere considerate “inaffidabili” nel mercato cinese, insieme con la californiana società di biotecnologie Illumina, senza però condannarle con misure punitive. E ce n’è pure per le Big Tech: anche l’Amministrazione per la regolamentazione del mercato cinese ieri ha pubblicato una breve nota dove ha annunciato l’avvio di un’indagine su Google – che non opera in Cina dal 2010 – per presunte violazioni della legge antitrust. Tutto è in divenire, in attesa della telefonata fra Trump e Xi annunciata ieri anche da Peter Navarro, braccio destro e consigliere di Trump per il Commercio e la produzione (e mentre questo giornale va in stampa non c’è ancora stata).

 


Non è un caso se diversi analisti cinesi già da diversi giorni si mostravano ottimisti su questa nuova “guerra commerciale” fra le prime due economie del mondo: perché  la strategia di Trump è quella di usare i dazi per negoziare, anche se lui a volte lo nega e a volte lo conferma, e in ogni caso già da tempo le aziende cinesi si stavano attrezzando in vista di possibili misure ben peggiori di quelle entrate in vigore ieri. Con Canada e Messico la negoziazione è durata pochissime ore, neanche il tempo di far entrare in vigore le misure. Pechino non può permettersi di arrivare subito al cedimento, e tratta alla pari, come nel grande disegno politico di Xi Jinping in cui la Cina rioccupa il suo posto al centro del mondo. Yingshi Gao, giornalista del canale cinese  Cgtn e autore di Inside China, ha scritto ieri che i preparativi da parte delle grandi aziende cinesi negli ultimi quattro anni si sono visti: “Case automobilistiche come BYD hanno costruito  fabbriche in Messico per evitare i dazi verso la Cina negli ultimi anni”. Per ora, scrive Gao, “non ho visto panico tra  le aziende cinesi. Sono relativamente calme per due motivi. Il primo è la natura inaspettata del nuovo presidente. Può emettere tariffe durante le negoziazioni e rimuoverle quando entrambe le parti sono vicine a un accordo. Una reazione eccessiva potrebbe non essere la scelta migliore. In secondo luogo, sono stati fatti molti preparativi per il potenziale impatto delle tariffe”. Per esempio già dalla fine del 2024 le imprese cinesi hanno  accelerato le esportazioni verso gli Stati Uniti per ridurre al minimo i potenziali rischi dei dazi, “che ora sono una realtà. Oltre a collocare la produzione in Messico, ora puntano a diversificare i mercati, soprattutto nei paesi dell’Asean”, con accordi di libero scambio che hanno fatto aumentare  del 10,5 per cento il volume degli scambi nel 2023. 

 

Solo in un aspetto questa nuova fase delle relazioni fra Washington e Pechino somiglia a quella del 2018, ed è la comunicazione: il ministero del Commercio cinese ieri, tra le altre cose, ha annunciato anche di aver presentato una denuncia contro le misure tariffarie degli Stati Uniti tramite il meccanismo di risoluzione delle controversie dell’Organizzazione mondiale del commercio (il Wto). “L’imposizione da parte degli Stati Uniti di ulteriori tariffe sulle esportazioni cinesi viola gravemente le regole del Wto e rappresenta il tipico unilateralismo e protezionismo commerciale”, ha detto un portavoce del ministero. Fino a qualche mese fa, però, e da anni, la Repubblica popolare è il paese che più ha minato le regole dell’istituzione che da 76 anni cerca di proteggere il sistema del commercio basato sulle regole. E’ stata la leadership di Pechino a iniziare a usare il suo ruolo dominante per scopi politici, utilizzando il commercio come una clava contro i paesi che non sono allineati alle sue decisioni: l’ha fatto con la Corea del sud, con l’Australia, con la Lituania e diversi altri paesi dell’Unione europea, lo fa sistematicamente con Taiwan. Già nel 2017 Xi Jinping fece il suo primo discorso al Forum economico di Davos ergendosi a difensore del multilateralismo, e ora Pechino, con Trump di nuovo alla Casa Bianca, può tornare facilmente a fingere di essere la protettrice delle regole internazionali. Il paese razionale delle decisioni razionali – per questo ieri i media di stato cinesi erano pieni di suggerimenti all’Ue in cui si sottolineava la necessità di un rinnovato dialogo fra Pechino e Bruxelles come forma di resistenza al pericolo Trump. E la Cina rischia di essere convincente, nascondendo nel frattempo le sue vere aspirazioni liberticide e antidemocratiche. 

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.