medio oriente

Cosa ha annunciato davvero Trump sul futuro di Gaza

Micol Flammini

Il presidente americano non ha delineato nessun piano dettagliato per la Striscia, ha mandato un messaggio ai sauditi e ad altri alleati: adesso tocca a voi. La posizione di Israele, il dietro le quinte, i rischi

C’è poco di concreto nella proposta su Gaza di Donald Trump, che girava nella testa del presidente americano da circa due mesi, dopo che lo scorso anno suo genero Jared Kushner aveva osservato quanto fosse preziosa la costa della Striscia avanzando l’idea di poter fare del suo meglio per ripulirla dalle macerie. Kushner, marito della figlia di Trump Ivanka, dopo la fine del primo mandato del suocero  ha fondato una società di private equity, la Affinity Partners, prevalentemente con fondi che provengono dall’Arabia Saudita.

  

Ma un progetto per Gaza, al di là delle mire e delle immaginazioni del mondo immobiliare che circonda Trump, ancora non esiste e il presidente americano avrebbe iniziato a pensare di proporre l’idea di un controllo americano sulla Striscia per trasformarla nella “Riviera del medio oriente” quando si è reso conto che nessuno metteva sul piatto qualcosa di nuovo.

 

Prima ha parlato di portare via da Gaza i palestinesi, poi ha annunciato il grande progetto immobiliare con resort, casinò e lavoro per tutti. Proprio perché non esiste un progetto concreto, non verrà realizzato e l’obiettivo del presidente americano era di scuotere gli alleati arabi in medio oriente perché se c’è un elemento che potrebbe cambiare il futuro di Gaza non è tirare di nuovo in ballo la possibilità che l’Autorità nazionale palestinese torni nella Striscia, ma fare in modo che la trasformazione diventi una responsabilità collettiva, di tutta l’area.

 

Il premier israeliano Benjamin Netanyahu e la sua delegazione non sapevano nulla di ciò che Trump avrebbe annunciato, erano arrivati  per parlare  soprattutto di Iran, e invece Netanyahu si è trovato davanti a uno degli annunci più spariglianti della storia: il presidente che ha fatto campagna elettorale demolendo l’interventismo americano ha proposto di andare a occuparsi di uno dei posti più complessi del medio oriente.

 

Trump avrebbe tirato fuori dal cilindro un’idea pronunciata proprio per suscitare la reazione da parte dei paesi arabi che dovrebbero prendere parte al futuro di Gaza.  I sauditi hanno risposto immediatamente, nonostante a Riad fosse mattina presto, con un comunicato in cui smentivano le parole del presidente americano secondo il quale l’Arabia Saudita non pensa più alla creazione di uno stato palestinese. Il ministero degli Esteri saudita si è affrettato a smentire: la creazione di uno stato palestinese rimane il punto fermo di ogni cammino verso la normalizzazione dei rapporti con Israele. “La reazione era prevedibile”, spiega al Foglio Lianne Pollak-David, cofondatrice del Consiglio per la sicurezza regionale, un istituto nato poche settimane fa per portare avanti gli Accordi di Abramo, ex membro del Consiglio per la sicurezza nazionale israeliano. “Tutto però dipende dal dietro le quinte, non sappiamo quanto siano allineati Trump e l’Arabia Saudita”.

  

Quello che si muove dietro le quinte pesa sempre di più di ciò che si mostra in superficie, ed è difficile immaginare che, per quanto incauto, Trump abbia davvero voluto mettere a rischio il rapporto con i sauditi. “Il piano non andrà nella direzione verso cui promette di andare”, dice Pollak-David, che suggerisce di guardare il sottotesto e di considerare l’annuncio di Trump come un modo per scuotere i suoi alleati. Stanco dei “no” arrivati dai paesi arabi e senza vedere nessuna idea innovativa riguardante Gaza, il presidente americano ha deciso di mettere sul piatto la soluzione americana: ricostruzione e allontanamento degli abitanti di Gaza.

  

Secondo fonti del Foglio, i palestinesi chiedono di poter lasciare Gaza, ma non desiderano fermarsi in Egitto o in Giordania, vorrebbero raggiungere i paesi più ricchi. Secondo Pollak-David, “non è concepibile un’emigrazione forzata e di massa, è contraria ai nostri princìpi democratici ed è rischiosa per tutta la stabilità del medio oriente. Ogni guerra genera rifugiati e anche i palestinesi dovrebbero avere l’opportunità di muoversi. Paesi come Egitto e Giordania inoltre sarebbero scossi da un arrivo in massa di profughi, ma potrebbero cambiare posizione su un numero simbolico”. 


Trump ha sparato alto, la destra e la sinistra israeliane, con toni diversi di entusiasmo, lo hanno ringraziato. I paesi arabi hanno avanzato critiche forti. Ma c’è una cosa che Trump sicuramente diceva sul serio: per rimettere in piedi Gaza ci vorranno almeno quindici anni, il cammino è molto lungo. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)