Una pattuglia americana nel nord della Siria (foto LaPresse)

Goodby Damasco

Trump studia il ritiro dalla Siria. Erdogan e l'Isis non vedevano l'ora

Luca Gambardella

Il Pentagono propone tre alternative per ritirare gli uomini dal paese e i curdi tremano. Con i russi che hanno lasciato Tartus, Sharaa va a caccia di nuovi amici e stringe un accordo militare con la Turchia

Mentre Donald Trump lanciava il suo piano interventista per ricostruire Gaza, l’emittente  Nbc rivelava che il Pentagono studia il ritiro americano dalla Siria. Secondo alcune fonti, i piani che il dipartimento della Difesa sta elaborando prevedono di richiamare i duemila uomini al momento presenti nel paese entro 30, 60 o 90 giorni. Si tratterebbe del secondo ritiro dalla Siria ordinato da Trump, dopo quello del 2019 che ridusse il contingente  costringendo alle dimissioni l’allora segretario alla Difesa, Jim Mattis, che non condivideva la decisione.  

E pazienza se il Centcom, il comando centrale degli Stati Uniti, abbia sempre messo in guardia in questi anni contro ogni disimpegno dalla regione. Ritirandosi dalla Siria, gli alleati curdi sarebbero costretti a concentrare le loro forze per difendersi dai turchi, abbandonando la gestione delle prigioni dove sono rinchiusi migliaia di combattenti dello Stato islamico. “Dobbiamo continuare a sostenere i nostri partner”, si era raccomandato il comandante del Centcom, Michael Kurilla, in audizione al Senato l’anno scorso. Trump sembra essere di un altro avviso. Se il ritiro del 2019 era spinto dalla volontà di delegare ai russi la stabilizzazione della Siria – e la storia recente ha dimostrato il fallimento di questa strategia – ora la decisione di abbandonare il paese lascerebbe alla Turchia il ruolo di garante della sicurezza nel paese. Con risvolti altrettanto imprevedibili. 

Martedì, la visita di Ahmad al Sharaa ad Ankara ha sancito un accordo militare che sembra replicare lo “schema libico” ideato da Recep Tayyip Erdogan per estendere l’influenza curda in medio oriente e Africa. Secondo le indiscrezioni di Reuters, l’intesa prevede la concessione di due basi militari ai turchi nei pressi di Palmira (una di queste dovrebbe essere l’ex base assadista denominata T4) e l’addestramento delle Forze armate. Chi è preoccupato per l’orizzonte che si va delineando in Siria sono i curdi. La presenza di un contingente turco nel cuore del paese lascerebbe poco spazio a trattative con coloro che, per Erdogan, sono una costola dei terroristi del Pkk mentre per gli americani sono gli unici alleati fidati contro lo Stato islamico. 

Nel frattempo, Sharaa continua a trattare con tutti, secondo il principio che la Siria è a disposizione di chiunque sia disposto a fare l’offerta giusta. Se con Erdogan non ci sono stati problemi a concludere l’accordo militare, con Vladimir Putin e Donald Trump le cose sono più complicate. Per concedere al Cremlino l’autorizzazione a mantenere la flotta mediterranea a Tartus e la base aerea a Latakia, il governo siriano ha chiesto la testa di Bashar el Assad, in modo da poterlo processare. La risposta di Putin è stata negativa e così, da una settimana, le navi russe cariche di armi e mezzi corazzati ha lasciato la Siria e sta facendo rotta verso casa, a Kaliningrad. Sharaa credeva che usare la mano dura con i russi lo avrebbe favorito sull’altro tavolo negoziale che vuole aprire con gli americani. La proposta del presidente siriano è di concedere agli Stati Uniti  di mantenere il loro contingente nel paese in cambio della rimozione di tutte le sanzioni che stanno penalizzando la ripresa economica. “Credo che il presidente Trump cerchi la pace nella regione e che la sua principale priorità sia togliere le sanzioni. Gli Stati Uniti non hanno alcun interesse a fare soffrire ancora il popolo siriano”, aveva detto Sharaa all’Economist tre giorni fa. Ma le indiscrezioni sui piani per il ritiro americano dal paese potrebbero sconvolgere i suoi progetti.

Mai come oggi la Siria ha bisogno di aprirsi al mondo ed è significativo che il primo viaggio all’estero di Sharaa da quando è ufficialmente presidente provvisorio del paese sia stato fatto, domenica scorsa, in Arabia Saudita. “Oh, Dio, fa che un giorno vedremo Bashar impiccato o bruciato o cacciato o umiliato come un prigioniero”, cantavano i pellegrini siriani in pellegrinaggio alla Mecca all’inizio della guerra civile siriana. Ora che quelle preghiere sembra siano state ascoltate, nei luoghi sacri dell’islam ha sfilato Sharaa, il giustiziere del tiranno. Al fianco della moglie Latifa al Daroubi, per la prima volta presente a un evento pubblico, il presidente siriano ha compiuto il suo pellegrinaggio alla Mecca. La curiosità generale era stata catalizzata dalla ricostruzione dell’albero genealogico della coppia, dove con stupore si è scoperto che un cugino del padre di Sharaa fu ministro degli Esteri siriano mentre un progenitore di Latifa fu primo ministro negli anni Venti del secolo scorso.  Concedendogli di visitare l’interno della Ka’ba,  il luogo più sacro dell’islam, i sauditi hanno riconosciuto a Sharaa il prestigio degno di un leader di uno stato sovrano. Oltre a un privilegio simile, la benedizione ricevuta dall’erede al trono Mohammed bin Salman ha dimostrato che il passato qaidista di Sharaa è acqua passata. Sin dai tempi di Assad e della sua riabilitazione internazionale alla Lega araba, i sauditi si erano dimostrati piuttosto pragmatici. Così, se fino a ieri era possibile cambiare idea sull’alleato dell’Iran accogliendo Assad in visita a Riad, oggi è ancora più accettabile dare il benvenuto a Sharaa, che in fondo in Arabia Saudita è nato e ha trascorso la sua infanzia. A Damasco però si osservano con preoccupazione gli ultimi sviluppi. Con i russi che salpano da Tartus e gli americani che studiano il ritiro, l’impresa di stabilizzare la Siria diventa ancora più mastodontica per Sharaa. E non è detto che farsi amici tra Riad e Ankara possa bastare.

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  • Luca Gambardella
  • Sono nato a Latina nel 1985. Sangue siciliano. Per dimenticare Littoria sono fuggito a Venezia per giocare a fare il marinaio alla scuola militare "Morosini". Laurea in Scienze internazionali e diplomatiche a Gorizia. Ho vissuto a Damasco per studiare arabo. Nel 2012 sono andato in Egitto e ho iniziato a scrivere di Medio Oriente e immigrazione come freelance. Dal 2014 lavoro al Foglio.