Fragilità e urgenza della seconda fase dell'accordo tra Israele e Hamas

Micol Flammini

Parlano le famiglie degli ostaggi che non verranno liberati nella prima fase. Il racconto dell'attesa, della paura di sabotaggi e di come sono state accolte le parole di Trump

Dopo aver annunciato di voler trasformare la Striscia di Gaza nella Riviera del Mediterraneo incentivando l’emigrazione dei palestinesi e investendo nella costruzione di un mondo di lusso e divertimento, il presidente americano Donald Trump ha fatto un’altra dichiarazione: nelle prossime quattro settimane si esprimerà sulla posizione americana riguardo all’annessione delle regioni che Israele chiama Giudea e Samaria e corrispondono alla Cisgiordania. La possibilità che gli Stati Uniti si pronuncino a favore dell’annessione non è sfuggita a Hamas, che ha grandi ambizioni in Cisgiordania: uno dei suoi leader nella tentacolare distribuzione del potere del gruppo, Moussa Abu Marzouk, ha detto all’agenzia di stampa russa Ria Novosti che Hamas è pronto a parlare con l’Amministrazione americana.

 

L’incontro fra Trump e il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, a Washington si è tenuto il 4 febbraio, ossia il sedicesimo giorno dall’inizio della prima fase dell’accordo e indicato come la data per avviare i negoziati per la seconda fase, che deve portare alla liberazione della maggior parte degli ostaggi.   La lista dei trentatré indicati da Hamas  per essere liberati nella prima fase si sta riducendo (ne rimangono venti) e le famiglie di tutti gli altri proseguono il loro lavoro forsennato e angosciato per poterne vedere il ritorno, vivi o morti che siano.

 

Il Foglio ha partecipato a un incontro con alcune famiglie che attendono la liberazione  consapevoli    che  il  ritorno degli ostaggi dipende dalla realizzazione o meno della seconda fase. L’annuncio di Trump li ha colti di sorpresa – in pochi sapevano delle intenzioni del presidente, neppure Netanyahu ne era al corrente e non poteva credere alle sue orecchie quando ha sentito parlare Trump – e hanno temuto che potesse sabotare la riuscita della seconda fase dell’accordo. Finora Hamas aveva negoziato sotto un’intensa pressione militare, ora arriva ai colloqui con una forte pressione diplomatica esercitata dagli Stati Uniti.

 

Herut Nimrod e Vicky Cohen sono le madri di due soldati rapiti dalla Striscia. Il figlio di Herut, Tamir, aveva diciannove anni quando è stato rapito, ha mandato un messaggio a sua madre per avvisarla che andava tutto bene e non sapeva che i terroristi erano già entrati nella base: la sua famiglia ha scoperto che era stato portato nella Striscia quando ha visto le immagini diffuse da Hamas in cui Tamir veniva caricato con altri due ragazzi su una gip diretta a Gaza.

 

“Sappiamo di essere in un momento critico, la tregua è delicata, il momento fra due fasi lo è ancora di più. Vedo le immagini delle liberazioni degli ostaggi, sono belle, sono parte di un processo importante e sogno che presto ci saranno immagini simili con me e Tamir”, dice Herut fiduciosa che le parole di Trump non incrineranno i negoziati. Il presidente americano ha detto che non sa se la tregua reggerà, ma ha ribadito che vuole vedere gli ostaggi tornare in Israele, sa di avere potere sulle decisioni del governo israeliano, non ammette che Netanyahu ceda alle pressioni di chi vuole continuare a combattere per eliminare completamente Hamas e con la sua posizione dimostra che non è soltanto Israele a dover andare dritto verso l’accordo, ma soprattutto Hamas. Vicky Cohen racconta la storia di suo figlio Nimrod facendo un respiro profondo, l’ha ripetuta centinaia e centinaia di volte, fa male ogni volta che la racconta ma sa che in quel ricordare ci sono tutte le possibilità di vederlo tornare: “E’ importante parlarne, ripetere, altrimenti ci si scorda che ci sono ancora settantanove ostaggi tenuti a Gaza. Mio figlio è stato preso mentre era sul suo carro armato in una posizione di difesa. Il carro armato ha avuto un problema, ha rallentato, i terroristi gli hanno piazzato un ordigno, ha iniziato a riempirsi di fumo e Nimrod è dovuto uscire. E’ stato catturato così”, anche Vicky ha visto il rapimento di suo figlio in un video.

 

“La tregua è fragile, serve parlarne”. Dalia Cusnir, cognata di Yair e Eitan Horn, parla con schiettezza della paura che l’accordo collassi. Ha i due cognati ritratti sulla maglietta: “Sono arrivati in Israele dall’Argentina, Yair è incluso nella lista dei trentatré, forse per il suo diabete. Tornerà senza Eitan, che pure ha una malattia della pelle molto grave che peggiora in condizioni di umidità, proprio quelle di cui hanno parlato gli ostaggi tornati dai tunnel di Gaza”. Dalia ha saputo che Yair e Eitan sono vivi da chi è stato liberato, “ci hanno parlato anche dei soprusi fisici e mentali a cui sono sottoposti”. Ogni racconto dei famigliari degli ostaggi è diverso, ma capita spesso che abbiano una frase in comune: sono quindici mesi che abbiamo messo la nostra vita in pausa. Il 7 ottobre ha bloccato il tempo nel momento più doloroso della loro esistenza. 

 

Udi Goren aspetta suo cugino Tal Haimi, sa che è morto: “I nostri genitori sono i fondatori del kibbutz Nir Yitzhak da cui è stato rapito dopo che aveva tentato di salvare la sua famiglia. La porta del mamad, il rifugio, era rotta, non avevano pensato a farla riparare. Serviva a proteggere dai razzi, non dai terroristi. Abbiamo celebrato il funerale di Tal quando sono stati ritrovati dei suoi resti biologici, ma il corpo è a Gaza. I suoi figli, il  giorno del funerale, sapevano che la bara non conteneva nessun corpo. Hanno bisogno di andare avanti. Il corpo di Tal deve tornare”. Andare avanti è una preghiera, negoziare con Hamas pone dei rischi incessanti e nessuno crede che saranno le parole di Trump a rallentare o distruggere l’accordo. Udi parla di guarigione, non soltanto per sé: “Non ho nessun piacere nel vedere la sofferenza dall’altra parte del confine. Ci penso ogni giorno. L’accordo non serve solo a noi, serve a dare  a israeliani e palestinesi la possibilità di guarire”. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)