L'oro degli altri
Cosa c'è dietro alla guerra dei dazi: accollare le spese agli amici
La prima vittima delle tariffe di Trump è la prevedibilità, nota Martin Wolf del Financial Times. L’analogia irresistibile con la Germania nazista alle prese con la bilancia commerciale
Una volta, cento anni fa, era “Fare grande la Germania”. Ora è “Make America Great Again”. Ma attenzione: con i soldi degli altri. Soprattutto con i soldi degli alleati e degli amici. I dazi di Trump hanno obiettivi assai più ambiziosi che riequilibrare la bilancia commerciale, che rilanciare la produzione interna a scapito delle importazioni. Mirano anche a compensare le migliaia di miliardi di perdite in entrate fiscali che deriverebbero dai tagli promessi ai contribuenti, innanzitutto ai contribuenti più ricchi. E’ stato lui a dirlo. E’ un cambio di paradigma. Per decenni l’America aveva finanziato la propria crescita strepitosa, il proprio benessere, accollando il proprio debito astronomico agli altri, ben contenti – a cominciare dalla Cina – di riempirsi i forzieri di buoni del tesoro Usa. Ora vorrebbe far pagare le tasse direttamente agli altri.
Che lo possano fare davvero, senza darsi la zappa sui piedi, senza essere travolti dall’inflazione, senza mettersi contro il resto del mondo, è naturalmente tutt’altro paio di maniche. La guerra è continuazione della politica con altri mezzi, diceva il generale prussiano von Clausewitz. Ma la guerra è sempre stata anche continuazione dell’economia con altri mezzi. Guerre commerciali, guerre di tariffe si sa come cominciano ma, come per le guerre guerreggiate, non si sa quando e come finiscono.
Trump vuole compensare le migliaia di miliardi di perdite in entrate fiscali che deriverebbero dai tagli promessi ai contribuenti, innanzitutto ai più ricchi
Siamo sulle montagne russe. Senza cinture e freni di sicurezza, senza sapere se e quanto l’impianto reggerà. Nel giro di 72 ore Trump ha imposto dazi a Canada e Messico e poi li ha congelati, per continuare a negoziare. Nel frattempo stavano crollando le borse. E’ una manfrina “transactional”, per meglio trattare, rassicuravano i suoi. Trump è rapidissimo in scelte e controscelte e contrordini. E’ imprevedibile. Si è rivelato capace di smentire i suoi più stretti collaboratori in una manciata di minuti. La prima vittima delle tariffe di Trump è la prevedibilità, nota Martin Wolf, autorevole commentatore del Financial Times. La non prevedibilità, il rischio, un margine di incertezza è l’anima dei mercati. Non c’è mai certezza se ci si guadagna o si perde la camicia. Ma l’imprevedibilità assoluta rischia di farli impazzire.
“Non prendono le nostre automobili, non prendono i nostri prodotti agricoli. Non prendono quasi niente da noi, e noi prendiamo tutto da loro”. Questa la spiegazione che Trump dà della sua guerra dei dazi. Canada e Messico sono, assieme all’Europa, i principali partner commerciali degli Stati Uniti. Il Messico, che rappresenta il 15,6 per cento del totale delle importazioni Usa, in questi ultimi anni ha superato il Canada (12,6 per cento) e persino la Cina (13,5 per cento). Messico e Canada non sono “rivali strategici” degli Stati uniti come viene considerata invece la Cina. Sin dagli anni 90 del secolo scorso erano integrati nel Nafta (North American Free Trade Agreement) che rendeva i loro interscambi strettamente intrecciati agli Usa. Era una scommessa sulla stabilità. L’Europa ancora no, sono anni che continua a trattare. Ma Trump è stato chiaro, le cose non le manda più a dire: “L’Europa ci ha trattato molto male, farò qualcosa in merito al nostro deficit commerciale con l’Ue”. La Germania rappresenta il 4,9 per cento delle importazioni Usa, il Regno Unito il 2,1, l’Italia il 2,9. La novità lampante, terrificante, è che l’America di Trump ce l’ha con amici e alleati più che con i nemici. Il paradosso terrificante è che potrebbe mettersi d’accordo con la Cina prima che con il Canada, il Messico e l’Europa.
La propensione a fare il bullo con i deboli e l’accomodante con i forti. Ma in Europa si parla già di dazi pesanti contro l’high tech Usa
Tra le molte incertezze si è fatta strada una certezza: che Trump è propenso a fare il bullo con i deboli, ad accomodare invece i forti. Indipendentemente dal fatto che siano amici o nemici. La Cina è forte. Ha fornito agli Usa molto più di quanto abbia importato dagli Usa. Più di tutti gli altri messi insieme. Ma i dollari del surplus li ha investiti in dollari, cioè finanziando il deficit Usa. Non è solo questione di ammazzare l’oca che fa uova d’oro. E’ quasi peggio cercare di ammazzare chi ti compra le uova, d’oro o di carta che siano. L’Europa, a differenza della Cina, è debole e divisa. Ma si dice che potrebbe far tesoro della massima di Trump: “Se uno ti minaccia con un coltello, tira fuori il bazooka”. Si parla già di dazi pesanti contro l’high tech Usa. La Silicon Valley che è saltata sul carro di Trump non ne sarebbe contenta.
Cullarsi nell’idea che si tratti di minacce roboanti solo per meglio trattare è una pia illusione. Pensare di potersi tirare dall’impaccio da soli facendo appello all’amicizia, ai buoni rapporti personali, alle affinità elettive, è un’illusione ancora più pericolosa. Lo “speriamo che io me la cavo perché gli sono più simpatico e congeniale, più amico degli altri” non può funzionare. Non ha mai funzionato. Non è detto che funzioni nemmeno per Messico e Canada, anche se ci stanno provando. Ci sta provando, pare, l’Inghilterra del laburista Starmer. A un certo punto bisognerà scegliere: scontentare Trump o scontentare i partner europei. Col rischio di scontentare entrambi. Dove potrebbe andare l’Italia senza, o peggio contro, Germania e Francia? Per giustificare, nelle conversazioni con Ciano, la sua scelta di campo a fianco della Germania nazista, Mussolini aveva scomodato Dante: “Ormai conviene far buon viso al gioco tedesco”, gli italiani non possono permettersi di essere “a Dio spiacenti e a’ nemici sui” (Inferno III, verso 63). Si sa come andò a finire. L’idea che Meloni possa fare da “ponte”, mediatore, paciere tra Trump e l’Europa somiglia quella che brevemente prese piede all’epoca dell’appeasement di Monaco. Non è solo peregrina: è ridicola.
Non c’è niente da ridere invece sul fatto che Trump vuole dividere l’Europa. Anzi vorrebbe che non ci fosse più un’Europa unita. Per completezza bisogna dire che l’Europa non garbava troppo nemmeno ai democratici. Ricordate il “Fuck Europe” sfuggito all’ambasciatrice Victoria Nuland, segretaria di Stato in pectore di Hillary Clinton se fosse diventata presidente lei nel 2016? “Make Europe Great Again” è il nuovo slogan lanciato da Elon Musk. Si traduce: “Eliminiamo l’Europa”. Non c’è movimento anti europeista che non abbia finanziato e appoggiato. Da Vox in Spagna, ai sovranisti in Italia, a Le Pen in Francia, a Orbán in Ungheria, agli austriaci di Fpö, ad AfD, il partito erede dei nazisti. Non sappiamo come andranno le imminenti elezioni in Germania. Né se gli sarà possibile fare un governo con l’ala conservatrice della Cdu. Non è un segreto però che, accanto alle “remigrazione” (leggi espulsione) dei migranti l’AfD vorrebbe far uscire la Germania dall’Ue. E’ la leader di Alternative für Deutschland, Alice Weigel, a dircelo. Come glielo spiegherà agli operai della Volkswagen minacciati dai dazi di Trump?
Pierpaolo Barbieri spiega ne “L’impero ombra di Hitler” come la Spagna fu il banco di prova per l’egemonia tedesca in Europa
C’è un documentatissimo libro di uno studioso argentino di origine italiana, che insegna storia economica al Trinity College di Cambridge, Pierpaolo Barbieri (L’impero ombra di Hitler. La guerra civile spagnola e l’egemonia economica nazista, tradotto da Mondadori). Fa venire i brividi. Racconta per filo e per segno come la guerra di Spagna non fu solo la prova generale della Seconda guerra mondiale, ma fu il banco di prova dell’egemonia con cui la Germania nazista si impose al resto dell’Europa. Non solo ai “nemici” ma innanzitutto agli amici e agli alleati. L’Italia si era accollata gran parte delle spese, senza ricavare alcun vantaggio economico, anzi. La Spagna divenne il principale fornitore di materie prime estrattive e alimentari alla Germania (nel 1939 tre quarti delle esportazioni spagnole erano dirette in Germania). In cambio la Germania forniva a Franco armamenti, la cui produzione contribuiva al boom economico. Il tutto grazie ai geniali meccanismi finanziari e commerciali escogitati dal diabolico banchiere di Hitler, Hjalmar Schacht. Mentre per l’Italia fu un intervento in pura perdita. Mussolini si accollò le spese senza ricavarne alcun vantaggio, se non un po’ di effimera gloria, e, soprattutto, il legarsi irrimediabilmente mani e piedi all’alleato.
Nella Germania nazista si scontravano diverse scuole, interessi, cordate e ambizioni personali. Esattamente come in seno all’amministrazione Trump. I consigli di chi lo tira in una direzione o nell’altra lasciano il tempo che trovano. Deciderà lui, impulsivo com’è, come nella Germania che fu decideva Hitler. Schacht, per fare “Grande la Germania di nuovo”, puntava a un’egemonia economica, soft. Hermann Göring puntava invece già, dichiaratamente, a un’egemonia hard, di rapina. “Nell’antichità le cose erano più semplici. Allora si saccheggiava. Chi aveva conquistato un paese disponeva delle ricchezze di quel paese. Oggi le cose sono fatte in modo più umano. Per conto mio, sono per il saccheggio, il totale saccheggio”, avrebbe spiegato Göring, che non aveva peli sulla lingua. Schacht e Göring erano come cane e gatto, si odiavano di tutto cuore. Sulla Neo-Weltpolitik di Schacht, dell’impero informale, dell’egemonia senza guerra, avrebbe prevalso il perseguimento della Lebensraum, dello spazio vitale, della guerra di saccheggio. Tra i saccheggiati senza ritegno sarebbe finito l’alleato italiano.
Negli anni 30 l’export della Germania languiva. L’economista Kurt Schmitt parlava delle esportazioni come di un “dovere nazionale”
Non resisto alle analogie. Scrissi, ormai cinque anni fa, un libro, Sindrome 1933. Era pieno di analogie spaventose. Pensavo di aver esagerato. Ma quel che è successo da allora è ancora più terrificante. Negli anni 30 del secolo scorso il problema della Germania era la bilancia commerciale. L’export della Germania languiva. Le importazioni la dissanguavano. Il giurista ed economista Kurt Schmitt parlava delle esportazioni e del riequilibrio della bilancia commerciale come di un “dovere nazionale”. Con non meno convinzione dell’altra mente geniale della Germania hitleriana, Carl Schmitt, il quale teorizzò che è “il Führer a creare il diritto”, in quanto rappresentante della volontà della nazione. I pochi magistrati che lo osteggiavano furono eliminati. L’avvocato che lo aveva difeso nei processi, Hans Frank, sarebbe diventato proconsole della Polonia occupata, guadagnandosi la nomea di “macellaio”. La destra politica tedesca era protezionista da molto prima che arrivasse Hitler. Gli industriali invece erano in maggioranza internazionalisti. “Globalisti” si direbbe oggi. “Globalisti” è l’accusa lanciata da Trump al Wall Street Journal che ha osato definire la sua “la guerra commerciale più stupida della storia”. Poi si adeguarono alla linea del nuovo potere. Il socialista Hilferding, autore di un classico studio sul Capitale finanziario, era sicuro che Hitler cancelliere sarebbe durato “pochi mesi”. I comunisti, di economia non masticavano. Tranne che prendersela col “capitalismo” (così come faceva buona parte del Partito nazionalsocialista, dei lavoratori tedeschi la dicitura completa). Non masticavano molto nemmeno di politica internazionale. Persa la Spagna, appropriatosi dell’oro della Repubblica, Stalin si alleò con Hitler per spartirsi la Polonia e quel che restava dell’Europa dell’Est. L’esito era tracciato.
Ci sono anche delle differenze. Hitler, una volta fatto cancelliere, in un governo di coalizione in cui era in minoranza, procedette a rotta di collo a prendersi tutto il potere. Senza alcun riguardo per amici e alleati. Si sbarazzò quasi subito di Hugenberg. Che era più conservatore di lui. Nella prima riunione del nuovo governo avrebbe voluto addirittura misure più pesanti contro i socialisti, oltre che contro i comunisti. Da ministro dell’Economia, lo aveva messo in difficoltà con le sue posizioni protezionistiche oltranziste. “Scuoterebbero la fiducia [internazionale] nel nuovo governo tedesco”, quando “era troppo presto per mettersi contro tutti”, lo rimproverarono. Poi si sarebbe sbarazzato dei centristi cattolici, che pure gli avevano votato i pieni poteri straordinari. Infine degli ultrà in seno al suo movimento, di Ernst Röhm e delle Sa, che volevano “continuare la rivoluzione”. Non credo che, se gli convenisse, Trump ci penserebbe su due volte prima di sbarazzarsi dei suoi amici ultrà (o viceversa, dei suoi amici moderati).
Trump è veloce. Ha messo nel giro di poche ore più carne al fuoco di quanto avesse fatto Hitler nei suoi primi cento giorni. E’ ancor più aggressivo, si presenta ancora più impulsivo e imprevedibile. Hitler aveva avuto una fase in cui si presentava come moderato e ragionevole, pronto a trattare e negoziare sul piano internazionale con tutti, purché non gli rompessero le scatole su quello che stava facendo in casa. Per qualche tempo fu persino “gentile” anche con gli ebrei, smise di parlarne. Avrebbe continuato a presentarsi come “uomo di pace”, a lungo, fino a poco prima di scatenare la guerra. Offriva ramoscelli d’ulivo anche alla Polonia. Era prepotente con i deboli (ad esempio la Cecoslovacchia) e conciliante con i forti (a cominciare dall’Inghilterra e dall’America, e anche la Francia, da cui si era ripreso con la forza la Renania del carbone e dell’acciaio). Tutti ci siano cascati. Non vedevano l’ora di credergli. La grande stampa internazionale – a cominciare dal New York Times, a proprietà ebraica – continuava a dargli del ragionevole, di uno con cui era possibile trattare, con cui si poteva benissimo continuare a fare affari, di uno che aveva a cuore gli interessi del proprio paese. Tutt’al più storcevano il naso (e neanche troppo) a certi eccessi di autoritarismo all’interno. Lodarono il modo in cui aveva fatto fuori i suoi ultrà. Ammazzandoli. Gli avevano creduto anche quando alla Conferenza di Monaco, appena un anno prima che aggredisse la Polonia, gli aveva spiegato che il suo obiettivo era solo difendere i poveri tedeschi della regione dei Sudeti, perseguitati da Praga. Parigi e Londra non volevano attaccare briga con lui. Men che meno l’America. Roosevelt era alle prese con un’opinione pubblica che non voleva impegnarsi in un’altra guerra in Europa. Non l’avrebbero fatta nemmeno al Giappone, se non ci fosse stato Pearl Harbour. Gli sembrava che a Tokyo volessero solo la “Coprosperità asiatica”, una sorta di Make Asia Great Again. Certo non lo fermò la Russia di Stalin che aveva già stretto il Patto scellerato con lui, e comunque a Monaco non era presente.
Cosa sarebbe successo se gli avessero tenuto testa? Gli storici non sono concordi. Il loro mestiere non prevede (o non dovrebbe prevedere) disquisire col senno di poi sul “se invece”. C’è chi sostiene che se anziché illudersi sulla “pace dei nostri tempi”, gingillarsi con l’appeasement, Francia e Inghilterra avessero mobilitato le proprie divisioni, Hitler si sarebbe fermato. O l’avrebbero fermato i suoi generali (che però non riuscirono a fermarlo quando attaccò la Russia). Oppure no, chissà, la guerra ci sarebbe stata lo stesso, solo un po’ più tardi. Il governo di Hitler non passava la mano, come sono invece costretti a fare, prima o poi, i presidenti americani.