negli stati uniti

Cosa pensano gli economisti di Trump

Luciano Capone e Carlo Stagnaro

Miran, Ruhl e Yared compongono un Council of Economic Advisers ben assortito, hanno prospettive divergenti e possono dare buoni consigli sui dazi e sulla politica fiscale. Sempre che il Presidente vorrà ascoltarli

Donald Trump non ama il dissenso. Le sue scelte per i posti chiave dell’amministrazione sono cadute su persone che percepite come allineate al suo verbo. Dato che la prevalenza della criterio di fedeltà è più marcata in questo secondo mandato, si temeva che nessun economista serio avrebbe rischiato di compromettere la propria reputazione accettando un incarico alla Casa Bianca. Per questo sorprendono i nomi scelti per il Council of Economic Advisers (Cea) del presidente: Stephen Miran, che lo presiederà, ha un dottorato ad Harvard, è direttore delle strategie del fondo Hudson Bay Capital Management ed era stato consigliere del segretario al Tesoro Steven Mnuchin durante prima Anministrazione Trump; Kim Ruhl, dottorato all’Università del Minnesota, è professore di economia all’Università del Wisconsin-Madison; e Pierre Yared, che ne sarà presidente vicario, ha un Ph.D. dal Mit di Boston ed è professore di commercio internazionale alla Columbia Business School.

Si tratta di tre nomi di livello, integrati nel mainstream, logicamente di orientamento conservatore ma tutt’altro che “cani sciolti” o portatori di idee eterodosse. Il Council of Economic Advisers è una sorta di think tank al servizio del presidente degli Stati Uniti. Cosa c'è da attendersi dal Cea di Trump? 

L’aspetto interessante è che, su alcuni punti fondamentali, i componenti hanno prospettive divergenti. Ad esempio Stephen Miran è convinto che il sistema commerciale internazionale soffra di profondi squilibri, dei quali fanno le spese soprattutto gli Stati Uniti. Pertanto, rifacendosi ad alcuni studi sulla “politica tariffaria ottimale”, Miran sostiene che il livello medio dei dazi dovrebbe essere portato attorno al 20% (contro il 2%), ma che perfino spingersi fino al 50% produrrebbe più benefici che costi per gli Usa. Al tempo stesso, sa bene che questi lavori poggiano su ipotesi poco realistiche, come l’assenza di ritorsioni, tanto che gli stessi autori di uno di questi studi, Arnaud Costinot e Andres Rodriguez-Clare, hanno definito i dazi al 20% “una pessima idea”. Le evidenze sulla recente intensificazione dei dazi durante il primo mandato di Trump e sotto Joe Biden smentiscono questa lettura. In alternativa, Miran suggerisce di perseguire la svalutazione del dollaro. Anche su questo è allineato a Trump.

Tuttavia, difficilmente queste tesi troveranno il consenso degli altri componenti del Cea. Kim Ruhl ha una riconosciuta competenza sul commercio internazionale ed è autore di studi sulla guerra commerciale con la Cina. Ruhl afferma chiaramente che un aumento dei dazi comporterebbe un rincaro degli input per molte industrie americane, rendendole meno competitive (l’assenza di questo effetto è una delle ipotesi irrealistiche delle ricerche apprezzate da Miran). “I dati mostrano con certezza che le tariffe si sono trasferite in un aumento dei prezzi negli Stati Uniti – ha detto Ruhl –. E ci sono pochissime evidenze che si possono creare posti di lavoro aumentando i dazi”. Un aspetto interessante, e controintuitivo, di un recente lavoro di Ruhl è che, nonostante la retorica infuocata di Trump, le imprese esportatrici cinesi durante il primo round di dazi del 2018 si aspettavano che la guerra commerciale sarebbe finita presto. Mentre le loro aspettative sono nettamente peggiorate dopo che Biden ha perseguito la stessa politica protezionista. Così il paradosso è che il consolidamento dei dazi da parte di Biden ha fatto più danni agli scambi internazionali della loro imposizione da parte di Trump.

Infine, Pierre Yared – apparentemente in posizione intermedia – è un macroeconomista che si è spesso occupato della credibilità della politica economica. Alcuni dei suoi risultati faranno gonfiare il petto dei Maga: per esempio ha mostrato che il dominio militare giova all’economia. Altri però contraddicono il presidente: i suoi studi mostrano l’utilità della responsabilità fiscale e di efficaci vincoli all’indebitamento. Un paper recente è relativo proprio alla tensione tra gli obiettivi della politica monetaria e la spinta verso la spesa pubblica dei governi “dovute al crescente populismo, per non dire le enormi pressioni di bilancio dovute alle crescenti necessità della difesa nazionale, della transizione verde e del servizio al debito”. Se ne può uscire, secondo Yared, solo rafforzando ulteriormente l’indipendenza delle banche centrali. L’opposto di ciò che vuole Trump per la Fed.

Il prossimo Cea, quindi, sembra più un foro di discussione che una falange trumpiana. Resta da vedere se Trump valorizzerà questa diversità, utilizzandola per correggere le sue politiche, o se finirà per stufarsene scacciando i grilli parlanti dalla Casa Bianca.