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Foto Ansa
la rassegna storica
La sparata di Trump su Gaza e i riferimenti storici
Dalle migrazioni forzate in Europa dopo le guerre mondiali all’esilio di ebrei e palestinesi: un viaggio tra esodi, confini ridisegnati e popoli nell’altrove
A fine 2015, secondo una stima dell’Ufficio centrale di statistica dello Stato di Palestina, nel mondo si contavano circa 12.370.000 palestinesi. Di questi, 6.220.000 vivevano ancora nei territori che facevano parte del mandato palestinese conferito all’Impero Britannico dopo la Seconda guerra mondiale, sebbene per lo più in sedi diverse da quelle dei loro antenati. Più precisamente, 4.750.000 abitavano in quello che l’Autorità nazionale palestinese considera lo Stato di Palestina, suddivisi in 2.900.000 in Cisgiordania e 1.850.000 nella Striscia di Gaza. Dieci anni dopo, quest’ultima cifra corrisponde alle circa due milioni di persone che Trump proponeva di trasferire altrove, al fine di trasformare il territorio in un resort. Inoltre, altri 1.470.000 palestinesi vivevano in Israele, dove godevano della cittadinanza, e 5.460.000 risiedevano in paesi arabi, soprattutto in Giordania, Siria e Libano. Infine, 685.000 palestinesi vivevano nel resto del mondo, tra cui, per esempio, il presidente di El Salvador, Nayib Bukele, noto anche per la sua amicizia con Trump. E’ evidente, infatti, che mentre Bukele non è un rifugiato, la maggior parte di questa popolazione non possiede tale status. Al primo gennaio 2015, risultavano registrati dall’Unrwa 5.149.742 rifugiati palestinesi in Giordania, Siria, Libano, Cisgiordania e Striscia di Gaza, di cui molti risiedevano nei campi profughi.
E qui si presenta una prima particolarità. L’Agenzia dell’Onu per il Soccorso e l’Occupazione (Unrwa) fu istituita con una risoluzione l’8 dicembre 1949, in seguito all’emergenza della guerra arabo-israeliana del 1948. Successivamente, poiché nel mondo non esistevano soltanto i profughi palestinesi – e, per esempio, l’Italia stava ancora metabolizzando l’esodo di istriani, giuliani e dalmati – il 14 dicembre 1950 venne istituito anche l’Acnur (Alto commissariato delle Nazioni unite per i Rifugiati). Tuttavia, l’Unrwa non fu inglobata nell’Acnu, come sarebbe stato logico. Oltre a essere gestiti separatamente, i palestinesi godono di un ulteriore singolare privilegio: a differenza di altri rifugiati, il loro status si trasmette di padre in figlio.
Infatti, secondo le stime Onu, nel 1949 i rifugiati palestinesi ammontavano a 711.000, mentre quelli registrati dall’Unrwa nel 1950 erano 940.000. E’ una popolazione rilevante dal punto di vista numerico. Un primo confronto da fare è con gli ebrei che, dopo il 1948, furono espulsi dai paesi islamici: sorprendentemente, il loro numero si aggira attorno ai 900 mila. Per esempio, in Marocco la popolazione ebraica passò da 250-265.000 unità nel 1948 a 31.000 nel 1972 e a 2.100 nel 2019; in Algeria da 140 mila a mille e 50-200 nel 2021; in Libia da 35-38.000 a 50 e 0 nel 2014. Non tutte queste espulsioni derivarono da episodi di violenza: la Turchia, per esempio, rimase a lungo alleata di Israele, e in Marocco e Tunisia i governi cercarono di proteggere gli ebrei locali, seppure in un clima di ostilità nei confronti di Israele. Tuttavia, anche in tali contesti si osservò una generale pressione della società civile. Non tutti gli ebrei, infatti, si trasferirono in Israele: molti ebrei algerini preferirono la Francia. Complessivamente, 650.000 si trasferirono in Israele, 235.000 in Francia e il resto in altri paesi. Israele si impegnò così a reintegrare questi ebrei nella propria società, concedendo loro la piena cittadinanza.
I paesi arabi, invece, non integrarono i palestinesi nelle loro società, e persino dopo la sconcertante proposta di Trump, Egitto e Giordania si sono irrigiditi all’idea di accogliere i profughi della Striscia di Gaza. Per questo motivo, sebbene sia noto che dopo il 1948 vi furono 900.000 profughi palestinesi, per sapere che ci furono anche 900.000 profughi ebrei occorre essere specialisti in certi temi (o appartenere alla comunità ebraica).
Mentre l’espulsione degli ebrei dal mondo islamico seguì quella che i palestinesi definiscono la Nakba, precedette in una certa misura l’esilio dei giuliano-dalmati, commemorato il 10 febbraio come Giorno del Ricordo, che coinvolse tra 235 e 350 mila persone. Tale dramma fu, in realtà, peggiore di quello subito dai palestinesi per due motivi: in primo luogo, i censimenti del 2001-2002 registrarono, per esempio, 2.259 italiani in Slovenia e 19.636 in Croazia, evidenziando una percentuale molto più elevata della popolazione interessata; in secondo luogo, mentre l’esodo istriano-dalmata fu un fenomeno unilaterale, la presenza di circa 900 mila palestinesi esuli da Israele e di altrettanti ebrei esuli dai paesi arabi rappresenta uno scambio di popolazione. In termini crudi, mentre nel primo caso è necessario reperire risorse per accogliere i fuggiaschi, nel secondo ciascuno potrebbe, in teoria, ospitare chi è stato cacciato dalle proprie case.
Poco più di un secolo fa, ciò fu formalizzato nella Convenzione riguardante lo Scambio delle popolazioni greca e turca, siglata a Losanna il 30 gennaio 1923 dai governi di Atene e Ankara. Tuttavia, lo scambio non fu paritario: furono trasferiti in Grecia 1.221.489 cristiani ortodossi provenienti dall’Asia minore, dalla Tracia Orientale, dal Ponto e dal Caucaso, mentre solo 355-400.000 musulmani furono inviati in Turchia dalla Grecia. Sebbene, in teoria, la Turchia di Kemal fosse una repubblica laica in cui si imponeva una laicizzazione forzata in stile occidentale, in pratica l’identificazione etnica avveniva in base alla religione, e non alla lingua. In Grecia furono così trasferiti anche i Karamanli – almeno 100.000 cristiani ortodossi della Cappadocia di lingua turca, che però scrivevano in caratteri greci – mentre in Turchia furono inviati i musulmani cretesi, di lingua greca. Naturalmente, i primi vennero grecizzati e i secondi turchizzati, ponendo fine a culture plurisecolari. Con ciò terminò anche quella presenza, durata oltre 2.500 anni, dei Greci in Asia minore e a Costantinopoli. In una Grecia che all’epoca contava circa sei milioni di abitanti, questo flusso di fuggiaschi, pari a un quarto della popolazione, ebbe un impatto che in parte perdura tuttora, contribuendo in particolare a dare origine a una sinistra massimalista rimasta radicata nel paese. A oggi, persino squadre di calcio come l’Aek di Atene o il Paok di Salonicco mantengono l’identità degli espulsi.
Un altro scambio di popolazione avvenne nel 1947 tra India e Pakistan, dopo la partizione dei due paesi e della guerra che ne seguì per delimitare i confini. Circa 14,5 milioni di persone si spostarono da territori in cui sarebbero stati minoranza a quelli in cui sarebbero stati maggioranza. In particolare, il censimento pachistano del 1951 individuò 7.226.000 persone provenienti dall’India, mentre il censimento indiano registrò 7.295.980 persone provenienti dal Pakistan. Apparentemente si trattava di un impatto paritario, ma, in realtà, poiché l’India contava allora 330 milioni di abitanti e il Pakistan solo 60, il fenomeno ebbe un peso maggiore in quest’ultimo. Conosciuti come Muhajir – termine che richiama l’egira compiuta da Maometto – i profughi in Pakistan erano mediamente di ceto professionale e culturale più elevato. Ancora oggi, contraddistinti dall’uso della lingua urdu anziché da quella punjabi, sindhi, beluchi o pathan dei locali, costituiscono spesso un’élite dirigente, in netto contrasto con l’immagine proletarizzata dei Greci dell’Asia Minore.
Un modello ancora diverso fu quello della Polonia, che, dopo la Seconda guerra mondiale, perse territori a est a favore dell’Urss, guadagnandone invece a ovest a spese della Germania. In sostanza, lo “scambio” fu finalizzato a sistemare gli sfollati dall’Armata Rossa in case e città sgomberate dai tedeschi. Non solo: il 9 settembre 1944, il governo polacco filocomunista, istituito a Lublino dall’Armata Rossa in contrapposizione al governo filo-occidentale in esilio a Londra, firmò tre accordi con le Repubbliche sovietiche di Ucraina, Bielorussia e Lituania per scambiare, secondo i nuovi confini, circa un milione di ucraini e 160.000 bielorussi con 1,1 milioni di polacchi e ebrei dall’Ucraina, 150.000–250.000 dalla Bielorussia e 150.000-200.000 dalla Lituania. Questi 1,5-1,6 milioni di polacchi furono poi sistematicamente insediati nei cosiddetti “Territori Recuperati”, precedentemente appartenuti alla Germania, da cui erano stati espulsi i tedeschi. Nel 1947, con la cosiddetta Operazione Vistola, furono risistemati anche 141.000 ucraini considerati irrimediabilmente anti-sovietici.
Quanti tedeschi furono cacciati dai Territori Recuperati? Uno studio del 2005 dell’Accademia Polacca delle Scienze stima che, alla fine della guerra, 4-5 milioni di tedeschi fuggirono seguendo la Wehrmacht in ritirata; 4,5-4,6 milioni rimasero, ma entro il 1950 circa 3.155.000 furono espulsi in Germania. Inoltre, 1.043.550 divennero cittadini polacchi e altri 170.000 poterono restare in Polonia come cittadini tedeschi. Una stima ufficiale redatta in Germania occidentale nel 1953 indicava che, nel 1945, vi fossero 5.650.000 tedeschi all’interno dei nuovi confini polacchi, di cui 3.500.000 furono successivamente espulsi e 910.000 rimasero, oltre a due milioni di vittime civili; tuttavia, nel 1974 una nuova stima ufficiale della Brd ridusse quest’ultima cifra a 400.000.
Altri 4,5 milioni di tedeschi furono espulsi dalla Cecoslovacchia, dove rimasero in 250 mila, considerati essenziali per l’economia; 233.000 furono espulsi dall’Ungheria; in Romania la popolazione tedesca scese da 786.000 a 400.000 unità; mentre in Jugoslavia diminuì da 500.000 a 82.000. Complessivamente, dopo la Seconda Guerra Mondiale, il numero totale di tedeschi espulsi si attesterebbe tra 13,5 e 16,5 milioni, con un bilancio di vittime che varia tra 500.000 e tre milioni.
Riguardando un numero minore di persone, ma con un peso relativo maggiore, va ricordata la pulizia etnica subita dagli ebrei durante la Shoà: su 9.689.500 ebrei presenti in Europa prima del conflitto, ne morirono 5.594.623. Nel 1945, nel territorio del Mandato di Palestina, vivevano 605.000 ebrei, mentre al momento dell’indipendenza nel 1948 il numero salì a 716.000. Il grande flusso di superstiti del genocidio ebbe inizio successivamente. Tuttavia, insieme agli ebrei, il nazismo sterminò anche un numero di zingari stimato tra 130.000 e un milione e mezzo. Durante la Seconda guerra mondiale, dai tedeschi furono uccisi anche tra 1,8 e 3 milioni di polacchi, mentre in Jugoslavia, tra il 1941 e il 1945, gli Ustascia croati uccisero tra i 248.000 e i 548.000 serbi ed ebrei, e i Cetnici serbi causarono la morte tra i 47.000 e i 68.000 bosniaci e croati. Questi conti in sospeso riaffiorarono mezzo secolo dopo, durante la guerra di secessione jugoslava, quando tra il 1992 e il 1995 i serbi uccisero tra i 31.000 e i 62.000 bosniaci.
Anche questa è una differenza importante, tra alcune identità nazionali che sembrano mantenere i conti in sospeso nel corso dei secoli, e altre che invece decidono di superare il passato. Nel caso di Germania e Italia ciò è dovuto soprattutto al senso di colpa percepito per le aggressioni commesse dai regimi nazista e fascista. Naturalmente, alcune recriminazioni persistono, ma mentre gli ebrei espulsi dai paesi arabi sono stati accolti in Israele, anche i profughi giuliani, istriani e dalmati sono stati reintegrati nella società italiana. Se, come i palestinesi, fossero stati trattenuti in campi profughi al confine per mantenere una rivendicazione, probabilmente anche a 80 anni di distanza potremmo assistere a una Organizzazione per la Liberazione dell’Istria che, da Trieste e Gorizia, sparasse missili contro Zagabria e Lubiana.
Ma il regime che probabilmente detiene il record storico di deportazioni è quello sovietico. Una lista praticamente ininterrotta che inizia nel 1920 con la deportazione di 45.000 cosacchi; poi, successivamente, i kulak, i finlandesi dell’Ingria, i tedeschi e polacchi in Ucraina, i coreani nell’Estremo oriente. Dopo la guerra furono deportati tedeschi, ungheresi, ucraini, polacchi e 400 mila fra giapponesi e coreani. E’ importante ricordare che, durante la deportazione dei ceceni, tra il 23,5 e il 50 per cento della popolazione fu sterminata, mentre quella dei tatari di Crimea subì una riduzione stimata tra il 18 e il 46 per cento.
Sempre nell’Urss staliniana si verificò l’Holodomor, un genocidio per fame che, tra il 1932 e il 1933, provocò la morte di 3-5 milioni di persone, pari ad almeno il 10 per cento della popolazione ucraina. Purtroppo, la Russia ex sovietica non ha ricevuto il minimo riconoscimento per le responsabilità del proprio passato, a differenza di Germania o Italia. Il risultato è che questo passato ritorna in modo drammatico, come dimostra l’aggressione putiniana all’Ucraina, durante la quale sono stati uccisi tra i 10.000 e i 40.000 civili e 307.000 bambini ucraini sono stati illegalmente deportati in Russia.
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