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(foto EPA)
l'analisi
Europa cara, perché parli solo di regole?
Con il Covid e la guerra in Ucraina l’Unione era sembrata risvegliarsi. Ora invece ha un’industria in crisi, non tratta con Trump, è divisa e sforna 47 accidentati percorsi per recuperare il terreno perduto. L’amara lettera di un Don Chisciotte alla sua Dulcinea
Premessa: Dulcinea europea, l’amore paziente
Va bene aver scelto Don Chisciotte come eroe ideale dell’ultimo tratto che ti resta (non a caso il lunatico cavaliere dell’ideale dà nome al podcast che da anni chi scrive condivide coi suoi compari, Carlo Alberto Carnevale Maffé e Renato Cifarelli, cui si è recentemente unita Clara Morelli). Passi l’aver coltivato speranze e ideali tanto accesi da apparire incongrui nella realtà, quella realtà che infatti ha sempre preferito imboccare la via comoda e popolare della difesa di prosaici e inveterati errori, per il timore di balzi in avanti che erodono rendite di posizione. Bene anzi benissimo raccontarti e condividere con altri la ferrea convinzione che nella vita ideale l’unica virtù sia la coerenza, quindi mai e poi mai arrendersi al fatto che nella realtà tutto va nella direzione opposta a quella per cui percorri la Mancia insieme al tuo Ronzinante, mentre Sancho Panza ti ridacchia dietro e si preoccupa per la tua salute mentale. Tutto può essere compreso e giustificato, se pensi che la vita sia quella della realtà romanzesca. Ma poi, aspra e spietata verso gli impratici idealisti, la vita vera presenta il conto. E viene il giorno in cui anche l’amore più disperato che ti sei inventato, verso quella Dulcinea del Toboso che sognavi come tua inattingibile principessa, inizia ad apparirti per quello che è sempre stato: solo un sogno irreale. Un sogno ispiratore, di benessere e felicità, radioso di aura benefica per intere collettività, fondato su pace e progresso, crescita e integrazione. Un sogno capace non solo di diffondere valori umani, civili e politici, valori di cui vastissima parte dell’Orbe terracqueo ancora scarseggia. Ma altresì di apparire a poveri e oppressi del mondo come un rifugio di speranza e un paladino pronto a difenderli.
Per chi scrive, in tutta la propria vita l’Europa federalista da costruire è stata questo sogno. Un sogno tenace, fondato sui disastri di sangue e distruzione, repressione e persecuzione, autoritarismi e dittature, guerre e imperialismo, razzismo e sterminio etnico-religioso: tutti i peggiori prodotti tossici che il culto degli Stati Nazionali ha nel Novecento regalato al mondo, partendo proprio dall’Europa.
Dulcinea europea: si rivela e ci si bea
Per decenni anche chi scrive ho condiviso l’idea che per l’Europa unita il processo sarebbe stato ancor più lungo dei decenni che sono stati necessari alle colonie americane prima di darsi un vero ordinamento federale, prima cioè di arrivare agli Stati Uniti come li conosciamo. Troppe centinaia di migliaia di vittime per secoli si erano accumulate nelle continue guerre di religione e di potenza tra le diverse entità statuali europee, per credere che tutto ciò potesse essere lasciato alle spalle in pochi anni. Infatti è stato un lungo e travagliato cammino, dalla prima Comunità economica del carbone e dell’acciaio negli anni Cinquanta in diverse tappe vino alla nascita della Cee e poi dell’Unione europea progressivamente allargatasi, fino alla nascita dell’euro condiviso in una cerchia più ristretta di paesi membri, e infine alla nascita di primi importanti strumenti comuni per affrontare crisi finanziarie come quella del 2008 e del 2011, per arrivare alla risposta condivisa alla dura legnata portata dal Covid, con la nascita di grandi fondi solidali finanziati attraverso debito comune, come avvenuto con il Next Generation Eu e diversi Pnrr nazionali che da quella scelta sono stati resi possibili, e che restano in corso di attuazione fino a fine giugno 2026.
E quella particolare scelta, come il Sure per affrontare cooperativamente il problema degli inoccupati, come il Mes temporaneamente esteso alle spese sanitarie post Covid (delittuosamente respinto dall’Italia, e ne paghiamo ancora le conseguenze) e poi divenuto anche meccanismo di back up per crisi bancarie (ma l’Italia sovranista ovviamente è rimasta solitariamente ferrea nel non ratificarlo), sembrò l’alba di un giorno nuovo. Le dure batoste inflitte dalla pandemia sembravano aver finalmente risvegliato la comune consapevolezza che sì, anche senza imbarcarsi in riforme strutturali delle istituzioni europee dopo diversi referendum nazionali che ne avevano bocciato gli sviluppi, l’Unione europea poteva e doveva comunque dotarsi di nuovi strumenti comuni per affrontare le side globali. La stessa criminale invasione russa dell’Ucraina sembrò suscitare comunque una reazione di coesione, non unanime ma vastissima, tra istituzioni europee e maggioranza schiacciante dei governi dell’Unione, nel respingere con durezza le pretese russe e nel sostegno assoluto alla difesa dell’Ucraina.
Il sogno di Dulcinea: nomoteta del mondo
Di lì in poi, però, tutto si è fermato. Anzi, si è diffusa nella nostra amata Dulcinea una colossale illusione, cemento e motore propulsivo dell’azione e della vastissima produzione regolatoria varata dalle istituzioni comunitarie in migliaia e migliaia di pagine su impulso della prima presidenza Von der Leyen alla Commissione europea. Tra grandi entusiasmi dei media, intellettuali e accademici, di fronte alla crescente conferma che la realtà internazionale stesse tornando a logiche di grandi potenze contrapposte, espresse sia in termini geopolitici e militari sia in termini di misure protezionistiche e daziarie, e rafforzate dall’avanzato disegno cinese di assicurarsi oligopoli crescenti negli input più necessari a tutte le tecnologie avanzate nonché dal tentativo di estendere un nuovo ordine mondiale di pagamenti e riserve basati non più sul dollaro, ebbene si è pensato che di fronte a tutto questo l’Europa aveva una sua grande arma segreta per aggirare, contenere e spiazzare tutte queste sfide al proprio ruolo. La sfida di diventare l’unica vera grande fabbrica mondiale non di beni e servizi, ma di standard regolatori. Dall’abbattimento delle emissioni secondo cronoprogrammi tostissimi alle tecnologie scelte dirigisticamente da Bruxelles per realizzarli; dagli Ets nati come strumenti per equilibrare e compartecipare l’enorme impegno finanziario richiesto ai settori produttivi più energivori per mettersi in regola, e divenuti invece esattamente l’opposto, cioè una falce che taglia per sovraccosti fuori dai mercati mondiali i settori europei di siderurgia, metallurgia, chimica e cemento; dal Cbam nato come border tax sull’impronta carbonica delle importazioni ma rivelatosi invece un balzello non solo facilmente aggirabile con triangolazioni estere, ma anche e soprattutto un’ulteriore aggravante di costo per gli importatori europei; dagli obblighi di rendicontazione ambientale di ogni input utilizzato dall’industria europea, alle norme che in materia di economia circolare hanno preferito il riuso delle materie al loro riciclo, di cui sono invece campioni Ue proprio le aziende italiane. Sono solo alcuni esempi. Si potrebbe continuare a lungo: le regole sull’Intelligenza Artificiale che antepongono alle sperimentazioni applicative pesanti oneri e rischi non solo alle grandi piattaforme mondiali che ne elaborano i modelli e li offrono come servizi, ma a chiunque li voglia adottare nella propria impresa; oppure il bando al motore endotermico chiudendo a tutti i biofuel che possono e anzi devono estendere produzione e vita della propulsione endotermica. Una scommessa colossale al cui confronto persino La grande illusione di Jean Renoir è una lezione di realismo. Una scommessa assolutamente cieca di fronte al fatto che il resto del mondo, a cominciare da Cina e Usa, a queste regole e obiettivi resta alieno e fa spallucce, mentre India e Brics li concepiscono come uno strumento di mercantilismo imperialista di un’Europa che ha inquinato per decenni mentre loro languivano. I risultati concreti si sono visti negli ultimi due anni: l’industria europea è entrata in una crisi che in Germania è di modello di sviluppo, e che negli altri grandi paesi membri ad elevata manifattura come Italia e Francia è diventata crisi di competitività da sovraccosto, minori margini e fatica a investire.
Dulcinea e Donald: fatti per non intendersi
Mentre l’Unione aspettava sette mesi perché la nuova Commissione europea con Von der Leyen al secondo mandato divenisse operativa, negli Usa in due mesi e mezzo Donald Trump veniva eletto ed entrava in carica. E dal giorno uno della sua entrata alla Casa Bianca ha iniziato col suo ben noto stile da mitragliere mediatico a sparare a raffica presidential orders di puntuale attuazione di tutti i suoi più aspri intenti annunciati durante la campagna elettorale. Nessuna sorpresa, se non di chi (tanti, nei media europei e italiani) si ostinavano a raccontare di un pazzo fuori di testa le cui parole in libertà naturalmente non andavano prese sul serio. In questa sede deliberatamente non si parla delle misure più ideologiche che costituiscono il collante radicale della base MAGA in materia di avvio immediato del massiccio rimpatrio forzato di immigrati illegali, stop alla cultura woke, fine dei programmi di inclusione di minoranze, disconoscimento Lgbtq, alt ai cosiddetti “regali indiscriminati al mondo” con lo stop a UsAid, uscita dall’Organizzazione mondiale della sanità, e via continuando. Limitiamoci alle misure ad alto impatto sull’economia e geopolitica mondiale, cioè quelle che ci investono direttamente come Ue e Italia. Cioè l’uscita degli Usa dall’accordo Ocse sul primo pillar della web tax relativa ai regimi di doppia tassazione delle grandi piattaforme tecnologiche Usa e ritorsioni aspre annunciate a ogni paese (in realtà la sola Europa) che si arrischiasse a voler avanzare pretese fiscali unilaterali sulle multinazionali statunitensi; nuovi dazi, come promesso immediatamente operativi per Canada e Messico, e annunciati dietro l’angolo per Cina e Ue; trattamento muscolare per Groenlandia e Panama, e via continuando.
Fino alla trattativa diretta riservata con Mosca per l’Ucraina, senza Zelensky e senza Ue né Nato, e alla distopica idea di una Striscia di Gaza senza palestinesi ma trasformata in nuova Costa Azzurra da capitali americani (su quest’ultimo tema, la Casa Bianca è stata costretta a un’immediata retromarcia perché Arabia Saudita e Giordania hanno riservatamente subito fatto presente a Trump che abbandonare l’idea dei “due stati” senza amici dell’Iran in quello palestinese, la deportazione del popolo di Gaza e, ciliegina sulla torta, il ritorno indiretto degli americani a Gaza rendevano la proposta il più gradito regalo a Teheran che si potesse immaginare: ma due giorni dopo Trump è tornato a dirlo, mentre il neo segretario di Stato Rubio balbettava “stiamo ancora studiando…”).
Ripetiamolo: tranne che su Gaza, e sui toni di Trump verso Putin molto meno accondiscendenti degli amichetti del tiranno russo che abbondano in Europa, nessuna sorpresa. Ma la memoria della raffica di dazi puntualmente già annunciati da Trump all’indomani della sua prima elezione, e immediatamente rivelatisi come un bastone fatto erculeamente roteare al solo scopo di spingere i paesi minacciati ad aprire immediatamente canali diretti di negoziato con Washington, quella memoria è scattata solo in alcuni paesi. Il Messico è stato il primo, ad accettare la proposta di schierare diecimila soldati ai suoi confini per fermare l’immigrazione illegale e il traffico di Fentanyl verso gli Usa, e i dazi aggiuntivi sono stati sospesi. Il Canada è stato più ferrigno nei primi giorni, perché il premier Trudeau ne ha approfittato per mettere in difficoltà il suo antagonista conservatore filo Trump, ma in realtà la trattativa riservata è partita subito anche perché l’80 per cento dell’export canadese è rivolto verso gli Usa. Quattro anni fa con lo stesso metodo Trump incassò l’annullamento del Nafta, il trattato di commercio che univa dagli anni Novanta Canada, Messico e Usa, per sostituirlo con uno nuovo. Panama ha capitolato in pochi giorni, perché la vera richiesta Usa era l’abbattimento del costo di transito nel Canale, enormemente accresciutosi nell’ultimo biennio, per chi batte bandiera Usa. Anche la Colombia si è precipitata ad accettare gli aerei americani che rimpatriano gli immigrati illegali in catene. Il Salvador si è addirittura offerto di ospitare detenuti statunitensi, offrendo le proprie prigioni in franchising. In Groenlandia, la richiesta vera di Trump non è la minacciata annessione ma spalancare alle aziende Usa la porta dei giacimenti minerari e di terre rare, invece di far decidere alla Danimarca che non ha capitali è che è anche per questo invisa agli indipendentisti groenlandesi. La Cina ha reagito con minaccia di ritorsione daziaria su un paio di decine di miliardi di import dagli Usa, cioè in modo molto soft visto che l’intenzione di Trump è applicare nuovi dazi indiscriminati su centinaia di miliardi di dollari di importazioni dalla Cina. Ma in realtà la Cina non vuole la guerra commerciale e tratta, ha subito aperto un canale riservato diretto che sale fino al vertice del ministero degli Esteri cinese sotto la regia di Xi Jinping.
L’unica fin qui a non trattare è la Dulcinea europea che amiamo tanto. Per carità, sono uscite decine di dichiarazioni di politici europei convinti che la svolta Trump è una sveglia per l’Europa, e che la risposta sarà adeguata. Non sono mancate toste esternazioni di madame Lagarde, della Von der Leyen e di commissari europei. Tutti i media europei si prodigano ogni giorno a presentare ai lettori stime sempre più gigantesche dei danni prodotti in ogni singolo paese membro dai dazi annunciati da Trump. L’invocazione di immediate misure ritorsive diviene sempre più estesa e popolare. Pressoché nessuno invece avanza la domanda essenziale: perché siamo gli unici al mondo a non trattare? Il guaio è che a essere davvero in difficoltà è proprio la non troppo estesa tribù che più ha a cuore l’Europa. Perché, ovviamente, i sovranisti alla Le Pen e Orban, Salvini, Fico e compagnia cantante filo Putin, loro godono e ridono, all’idea di un’Europa muta. Tra gli europeisti invece oggi allignano toni bellicosi. Facciamo tre esempi recenti di casa nostra. Mario Monti è europeista a tutta prova. In un’intervista al Corriere ha puntato il dito contro chi in Europa crede di trattare direttamente con Trump rompendo il fronte comune, a cominciare dal governo Meloni. Aggiungendo che a questo punto bisogna usare l’antitrust europeo come una clava verso le multinazionali Usa.
Ma tra molti europeisti osservanti è scattato subito un dubbio: quell’antitrust europeo da difendere non è forse quello che ci ha regalato oltre 45 maggiori operatori di telefonia in 27 paesi Ue contro i 7 maggiori in tutti gli Usa, col risultato che l’assenza di un grande groppo europeo e la progressiva erosione dei margini ha impoverito e abbattuto gli investimenti di tutti gli operatori europei? Sarebbe questa dottrina impropria dell’antitrust, a renderci superiori? Il rapporto Draghi diceva, giustamente e dati alla mano, l’esatto opposto: l’antitrust Ue va rivisto dalle fondamenta, e molti di noi amanti di Dulcinea la pensano come lui. Secondo esempio: il professor Carlo Cottarelli, sincero europeista anche lui. In un editoriale per Repubblica sulle spese per la difesa, ha vigorosamente respinto l’idea che Europa e Italia debbano spendere di più in sistemi d’arma avanzati: è solo Trump a chiedercelo, ha scritto, perché dobbiamo obbedire? Per gli europeisti anti Putin è vero il contrario: l’invasione russa e la minaccia verso i Paesi baltici e dell’Est Europa ci ha messo faccia al muro per la nostra renitenza a spendere per una difesa moderna, efficiente e capace di fare scala delle eccellenze europee esistenti. E’ per questo che abbiamo dovuto centellinare il sostegno richiesto dall’Ucraina, altrimenti restavamo sguarniti noi per primi. E Cottarelli conclude che l’Europa spende più della Russia, ergo il problema non esiste. Peccato però che sia la difesa comune europea allo stato delle cose a non esistere. Lunedì della settimana scorsa c’è stato un vertice informale europeo sul punto, e l’accordo non c’è stato. Sui progetti di piattaforme e sistemi più avanzati, missili, mezzi corazzati, unità navali, velivoli di nuova generazione che operano in sciame con Loyal Wingman Unmanned, i maggiori paesi europei hanno tutti programmi in contrasto e concorrenza tra loro. Terzo esempio, l’ex premier italiano ed ex commissario Ue Paolo Gentiloni, europeista senza tentennamenti: titolo della sua intervista “La sfida con gli Usa? L’intero Occidente è a rischio”. Tutti questi bellicosi intenti sembrano ignorare ciò su cui Trump si aspetta che la Ue tratti: vuole piazzare all’Europa maggiori quantitativi di Gnl americano, e maggiori ordini di sistemi militari e di sicurezza statunitensi. Perché non dovrebbe convenire all’Europa accettare questa impostazione, con i drammatici problemi che abbiamo sul tema dell’energia e della difesa? E’ meglio restare sui prezzi elettrici fai-da-te nazionali, diversi in ogni paese membro Ue a seconda dei rispettivi errori compiuti sui relativi mix energetici nazionali, un’asimmetria che l’industria italiana paga amaramente? E’ meglio credere nella via nazionale agli strumenti avanzati di difesa? Ma ecco poi la sottaciuta più amara verità. Alla domanda essenziale – come mai l’Europa non tratta – solo in parte si può rispondere accusando le miopie e le divisioni dei nazionalismi dei diversi paesi Ue. In realtà, quando Gentiloni dice “per l’Europa deve trattare con Trump solo Ursula Von der Leyen, lei e solo lei”, sa benissimo che è una frase senza costrutto. Von der Leyen non ha alcun mandato definito e condiviso tra paesi Ue per trattare con Trump, e non ce lo può avere secondo la bizantina logica del trilogo istituzionale su cui è incardinato l’intero processo di decision making dell’Unione. L’unico ad aver dato la risposta vera è stato Mario Draghi, in cinque parole cinque: “L’Europa deve diventare uno stato”. E bisognerebbe aggiungere una cosa un po’ Nerd: a Bruxelles dovrebbero ristudiarsi il grande premio Nobel John Nash, e la sua teoria dei giochi multivariati non cooperativi tra una molteplicità di attori, ciascuno dei quali persegue una logica di massimo risultato. Poiché Trump colpisce un insieme differenziato di interesse internazionali, il gioco vincente per l’Europa è trattare con il Grande Narciso e insieme con gli altri paesi minacciati dai dazi: restare isolati credendo di batterlo ci renderà solo un vaso di coccio tra vasi di ferro.
La bussola di Dulcinea: 47 morto che parla
Per noi poveri illusi Donchisciotte, la mazzata più recente è stata ancor peggiore di tutto quanto abbiamo elencato: la Bussola per la Competitività con la quale una decina di giorni fa la nuova Commissione Ue ha esordito per indicare come rispondere agli enormi gap accumulati verso Usa e Cina. Si erano sprecate le promesse: è chiaro che bisogna dare una risposta rapida ed efficace alla crisi dei settori energivori dell’industria europea, siamo pronti a rivedere alcune scelte fatte in precedenza, ci daremo una strategia complessiva che unisca insieme i fattori trasversali di competitività, quelli verticali delle filiere, quelli contestuali delle risorse finanziarie, e quelli strategici delle tecnologie avanzate da promuovere e dell’indipendenza cui mirare sulle materie prime. Ne ha scritto benissimo su queste colonne David Carretta. Eravamo fiduciosi di una scelta articolata su alcune urgenze immediate da risolvere, prima di un intero Baedeker programmatico. In sintesi, per esempio: per l’auto sospensione delle folli multe per i produttori previste nel 2025 e slittamento degli obiettivi annuali di abbattimento emissioni, nonché cancellazione del bando alla propulsione endotermica per il 2035; per Ets2 e Cbam, revisione immediata dei criteri attuali previsti e riperimetrazione dei soggetti e filiere cui si applicano; sull’energia, Acquirente Unico per il gas e disaccoppiamento in tariffa elettrica della remunerazione di produzione da fonti rinnovabili rispetto a produzione da gas; per la difesa, immediatamente fuori dal computo di rientro deficit previsto dal Patto di stabilità; proposta concreta di come articolare e finanziare un Fondo europeo energivori e un Fondo europeo per l’Intelligenza Artificiale. Tre-quattro pagine di scelte secche illustrandone i particolari, come programma d’emergenza per i primi 100 giorni.
Invece, malgrado ottime formule introduttive su tutti i gap accumulati, le 27 pagine fitte fitte della Bussola illustrano un gigantesco programma quadriennale di ben 47 diversi Act europei relativi a ogni questione e settore, dai più ai meno importanti, senza alcuna vera indicazione concreta delle svolte da operare. Pensare che la risposta alle difficoltà europee e italiane, in un contesto mondiale che vive di grandi accelerazioni e di trattative dirette bilaterali tra potenze, possa venire da 47 accidentati percorsi tra le diverse inclinazioni dei commissari Ue, delle diverse famiglie politiche presenti al parlamento Ue, e dai diversi orientamenti dei 27 governi Ue, senza che la nuova Commissione osi al suo esordio neanche indicare che bisogna introdurre alcuni grandi Fondi comuni pubblico-privati, e che talune grandi filiere strategiche hanno bisogno di scelte immediate per riorientare gli investimenti, abbattere i sovraccosti e ottenere credito sui mercati, tutto ciò significa continuare nella grande illusione europea che vuole riregolare da capo ogni volta ogni minimo dettaglio di ogni settore e produzione, invece di limitarsi a correggere in fretta gli errori fatti. Una cultura regolatoria nutrita di ambizione bulimica e destinata a produrre nuova ipertrofia normativa. Per noi poveri amanti disperati di Dulcinea Europa, questo fatidico 47 evoca il significato che il numero ha nella smorfia romana del lotto romana: 47 morto che parla.
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l'editoriale dell'elefantino