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Prezzi e salari

Il rischio inflazione negli Usa: fra i dazi di Trump e l'indipendenza della Fed

Fabio Sabatini

Il protezionismo farà aumentare i prezzi, mentre l'improvvisa riduzione dell’offerta di lavoro rischia di causare un rialzo dei salari, facendo incrementare i costi di produzione. Ma dalla banca centrale americana ancora nessuna reazione

Se la Fed non sprecasse il suo tempo con l’ideologia gender e la bufala del cambiamento climatico, l’inflazione non sarebbe un problema e si potrebbero abbassare i tassi d’interesse. È la reazione del presidente Trump alla pausa nel declino dei tassi – ora al 4,25-4,50 per cento – stabilita dall’autorità monetaria dopo tre diminuzioni consecutive.

 

In realtà, la decisione di lasciare invariati i tassi non ha a che fare con l’inclusione delle persone trans. La causa della prudenza della Fed, invece, è proprio il potenziale inflazionistico delle politiche trumpiane. Dopo avere usato l’inflazione per criticare l’Amministrazione Biden in campagna elettorale, il presidente sembra aver escluso l’aumento dei prezzi dalle proprie priorità. Diverse misure promesse da Trump hanno un elevato potenziale inflazionistico. Anzitutto i dazi. Al momento ha stabilito, e poi sospeso per un mese, dazi del 25 per cento sui prodotti provenienti da Canada e Messico e del 10 per ceto sui prodotti cinesi. Ora ha appena annunciato dazi generalizzati del 25 per cento sulle importazioni di acciaio e alluminio

 

               

La conseguenza più immediata dei dazi sarà l’aumento dei prezzi. I beni di importazione tassati costeranno di più, perché i dazi graveranno prevalentemente sui consumatori. Ma anche il prezzo dei beni prodotti in Usa aumenterà, perché le imprese affronteranno un aumento dei costi di produzione nella misura in cui utilizzano energia, materie prime o beni intermedi importati dai paesi colpiti dai dazi. Inoltre, le imprese protette dalla competizione internazionale potranno permettersi di stabilire prezzi più elevati, come mostrano i precedenti storici del protezionismo americano.  

 

Il piano di espulsione degli immigrati non autorizzati è destinato a peggiorare la situazione. Gli irregolari costituiscono almeno il 6 per cento della forza lavoro statunitense, ma la loro espulsione difficilmente libererà posti di lavoro per i nativi americani. Anche in questo caso, i precedenti storici inducono al pessimismo. Le espulsioni effettuate durante l’Amministrazione Obama hanno determinato la perdita del lavoro di almeno un lavoratore americano ogni undici irregolari espulsi. Secondo il Peterson Institute for International Economics, se si realizzasse anche solo un quarto delle espulsioni promesse, assisteremmo a una riduzione permanente dell’occupazione dello 0,6 per cento. L’improvvisa riduzione dell’offerta di lavoro causerebbe un rialzo dei salari, che aumenterebbe i costi di produzione determinando un aumento dei prezzi. Con il passare del tempo, le imprese reagiranno rafforzando l’automazione, che provocherà la disoccupazione dei dipendenti meno qualificati. Tale processo di aggiustamento sarà più difficile in settori come l’edilizia, dove l’aumento dei prezzi rischia di diventare permanente, con effetti particolarmente deleteri per l’inflazione. 

 

Il potenziale inflazionistico dei tagli alle tasse promessi da Trump non sembra da meno. La misura chiave proposta in campagna elettorale è la riduzione dell’imposta sui redditi d’impresa, cui dovrebbe aggiungersi una riduzione delle aliquote sul reddito da lavoro e un insieme, per ora vago, di deduzioni ed esenzioni. L’effetto complessivo dipenderà dal modo, ancora incerto, in cui i tagli saranno disegnati. 

 

Nonostante tali premesse, il presidente Trump ha più volte invocato il taglio dei tassi da parte della Fed, cui non ha risparmiato accuse scomposte e minacce di assoggettamento al governo. Per il momento, il presidente della Fed Jerome Powell – che oggi e domani verrà audito dal Congresso – non ha accennato alcuna reazione. Tuttavia, in ottemperanza ai primi ordini esecutivi di Trump, la Fed ha congelato le assunzioni, rimosso la sezione su inclusione e diversità dal proprio sito, ritirato il sostegno a una conferenza sul cambiamento climatico organizzata dalla New York University, annullato i seminari sull’economia del clima che la sezione di San Francisco organizza dal 2020, e lasciato il comitato internazionale di banche centrali sui rischi finanziari connessi al cambiamento climatico. 

 

La battaglia annunciata da Trump per limitare l’indipendenza della Fed deve ancora iniziare, ma nel frattempo gli elettori americani certamente non godranno della riduzione del prezzo delle uova promesso in campagna elettorale. In compenso, potranno consolarsi contemplando il nuovo “Golfo d’America” su Google Maps.
 

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