L'ultimatum di Trump e Bibi a Hamas

Micol Flammini

I terroristi non vogliono liberare altri israeliani: usano gli ostaggi per la loro propaganda, se non sono in buone condizioni sono inservibili. Se altri rapiti non torneranno entro sabato a mezzogiorno, la guerra ricomincerà

Quando sabato in Israele saranno le 12, per il presidente americano Donald Trump saranno le cinque del mattino. In quel momento esatto si saprà se la tregua con Hamas proseguirà verso l’avviamento della seconda fase. Il gruppo terrorista della Striscia di Gaza ha detto che questa settimana non verrà liberato nessun ostaggio a causa del mancato adempimento da parte di Israele delle consegne di generi umanitari. Secondo gli israeliani, i camion che dai punti di ingresso al confine si dirigono verso la Striscia portando viveri, acqua, indumenti e medicine entrano con regolarità. Il primo a lanciare un ultimatum è stato Trump: se Hamas non rispetterà l’accordo entro mezzogiorno di sabato, scatenerò l’inferno. Dopo un incontro con i suoi ministri e l’esercito durato più di quattro ore, anche il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ha confermato che Israele attenderà il limite temporale indicato dal presidente americano e se Hamas non permetterà agli  ostaggi di tornare in Israele, Tsahal, l’esercito israeliano, è pronto a riprendere i combattimenti. I soldati sono in allerta, i parenti degli ostaggi sono sfiniti. Sabato Hamas ha liberato Ohad Ben Ami, Or Levy ed Eli Sharabi, i tre erano irriconoscibili quando sono stati condotti al punto di incontro con la Croce Rossa, dove i terroristi avevano allestito un palco con su scritto in arabo, ebraico e inglese “noi siamo l’alluvione, il giorno dopo della guerra”. 

  
Vicino alla scritta era disegnato un pugno chiuso in segno di lotta, con sei dita anziché cinque: il sesto dito non ha alcun significato, è un errore di sciatteria degli scenografi di Hamas. I tre uomini sono arrivati in pessime condizioni, i miliziani li hanno sostenuti, non si reggevano in piedi. Ohad, Or ed Eli sono stati portati comunque sul palco, costretti a esibire il diploma che Hamas consegna a tutti i rapiti, e forzati a rilasciare delle dichiarazioni. Quello che colpiva della scena era la magrezza sfinita di tre corpi usati da Hamas, messi sul palco per l’ultimo sfregio: Eli Sharabi, irriconoscibile dall’uomo in carne che appariva nelle foto che tappezzano Tel Aviv uscite da una vita precedente che non tornerà più, ha detto che era contento di tornare a casa da sua moglie e dalle sue figlie. Nessuno fra i terroristi durante i sedici mesi di prigionia gli aveva detto che erano state uccise  il 7 ottobre nel kibbutz Be’eri. Le immagini di Or, Eli e Ohad erano inservibili per lo spettacolo di propaganda di Hamas, inutilizzabili per lo slogan secondo il quale  da Gaza gli israeliani escono in forma, ringraziando i loro carnefici. Finora i miliziani avevano costretto gli ostaggi liberati a scrivere lettere di ringraziamento, a recitare in arabo parole di gratitudine, a sorridere, a mostrarsi docili, complici. Or, Eli e Ohad ridotti pelle e ossa erano inservibili per i fini di Hamas. 

   
“A questo punto tutti gli ostaggi sono una questione umanitaria”, dice la dottoressa Einat Yehene, che collabora con il Forum delle famiglie degli ostaggi, l’associazione che dal 7 ottobre lavora per coordinare la solidarietà e la lotta dei parenti di chi è stato rapito. “E’ impossibile considerare che non ci siano priorità, sono tutti una priorità. Oggi è martedì e stiamo ancora rielaborando le immagini che abbiamo visto sabato”. La dottoressa fa un’affermazione di logica: chi è ancora a Gaza è malato, malnutrito, forse torturato. Con gli ultimi rilasci, Israele sta accumulando informazioni su chi è ancora in prigionia. Or ed Eli hanno raccontato di aver condiviso la stanza con Eliya Cohen e Alon Ohel. I due ragazzi sono tenuti in catene, senza cibo, hanno sul corpo ferite non curate, sono in un tunnel. La scorsa settimana la Russia aveva chiesto la liberazione di Sasha Trupanov, cittadino con doppio passaporto israeliano e russo, rapito assieme alla madre e alla fidanzata, rilasciate durante la tregua del novembre 2023. Sasha è detenuto dal Jihad islamico, che ha pubblicato un suo video qualche mese fa, ma è stato Hamas a rispondere  alla Russia che il ragazzo sarà liberato, anche se  non è ancora il suo momento. Era bastata questa dichiarazione per far capire che i miliziani stavano aspettando che apparisse in condizioni migliori, dopo tutto anche Or, Ohad ed Eli hanno raccontato di aver ricevuto più dosi di cibo poco prima del rilascio. 

  
Ziv Abud è la fidanzata di Eliya Cohen, era con lui al Supernova festival, avevano cercato rifugio insieme nel migunit, il riparo lungo la strada, assieme a molti altri che scappavano dai razzi. Era lo stesso migunit in cui Hamas iniziò a lanciare una granata dopo l’altra e a colpire con raffiche di fucile. Dentro al rifugio c’erano Ziv, Eliya, Or, sua moglie Einav e molti altri ragazzi. Einav è stata uccisa dalle esplosioni, Ziv è svenuta per le ferite, l’ultimo suo ricordo è Eliya urlante per essere stato colpito al piede. Non ha visto mentre veniva portato via assieme a Or, ed Eliya non sa che lei è viva. Non sa nulla. Ha affidato a Or ed Eli un ultimo messaggio da portare in Israele: dite a mia madre che recito il kiddush (la preghiera che apre lo shabbat), ditele che sono forte e tornerò. Non una parola su Ziv: è convinto che sia stata uccisa nel migunit. Avevamo incontrato Ziv a ottobre dello scorso anno, era nel kikar hatufim, la piazza degli ostaggi di Tel Aviv, ci aveva raccontato il suo tormento, la fatica quotidiana di mantenere viva la battaglia. “Sono stanca”, ci aveva detto. Ziv dice che si fida di Netanyahu e si fida di Trump che ieri ha ammesso di non credere che Hamas onorerà l’accordo. Se non lo farà vorrà dire che gli ostaggi non torneranno, che la guerra ricomincerà. Ieri il presidente americano Donald Trump ha ospitato alla Casa Bianca il re della Giordania Abdallah II. L’obiettivo era parlare della dislocazione dei palestinesi in Giordania ed Egitto. Abdallah ha detto che presto i paesi arabi presenteranno un loro piano per Gaza. Il presidente egiziano al Sisi, che pure sarebbe dovuto andare da Trump oggi, ha posticipato la visita.

  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)