Il dilemma di Taiwan

Gli amici di Trump sostengono la Cina nei suoi metodi, simili a quelli russi

Giulia Pompili

C’è un uomo che potrebbe essere presto parte della nuova Amministrazione Trump di cui si parla molto in questi giorni al ministero degli Esteri di Taiwan. Si chiama Darren Beattie, e nei suoi numerosi e controversi post sul social network X ha scritto spesso anche di Taiwan, in questi termini: secondo Beattie l’isola finirà “inevitabilmente ad appartenere alla Cina, e non vale la pena spendere alcun capitale per impedirlo”; l’invasione di Taiwan da parte della Cina “potrebbe significare meno sfilate di drag queen a Taiwan, e in ogni caso non sarebbe la fine del mondo”; e poi: “Si dovrebbe fare un  accordo: accettiamo di riconoscere questa realtà in cambio di massicce concessioni da parte della Cina su Africa e Antartide”. Secondo la stampa americana,  Darren Beattie potrebbe presto diventare sottosegretario alla Diplomazia pubblica del dipartimento di stato, e in questi giorni molti funzionari taiwanesi stanno facendo pressioni affinché il segretario di stato Marco Rubio non accetti la sua nomina.

 

Del resto, Beattie non è un problema soltanto per Taiwan: anche durante il primo mandato di Donald Trump, Beattie  aveva orbitato attorno ai personaggi chiave del trumpismo, facendo da speechwriter a Stephen Miller (oggi vicecapo dello staff). Solo che nel 2018 era stato licenziato, quando la Cnn aveva pubblicato le sue foto mentre pronunciava un discorso a una conferenza del HL Mencken Club, frequentato da nazionalisti bianchi. Fuori dalla Casa Bianca, Beattie aveva fondato il sito Revolver News, un condensato di notizie false, discorsi d’odio e teorie del complotto (anche sul 6 gennaio) dal quale è uscita, una settimana fa, la notizia della sua probabile nomina a vice di Rubio. Non è l’unico personaggio particolarmente vicino alle istanze di Pechino e lontano da quelle di Taipei: Kash Patel, il candidato di Trump a direttore dell’Fbi, nella sua dichiarazione finanziaria ha reso noto di detenere azioni per un valore compreso tra 1 e 5 milioni di dollari in Elite Depot, una società delle Isole Cayman che controlla Shein, il colosso cinese del fast fashion più volte accusata (anche da Rubio) di sfruttare il lavoro forzato nella regione dello Xinjiang. 

 


Taiwan è in un momento di grande difficoltà internazionale, perché negli ultimi anni il lavoro di isolamento diplomatico condotto dalla Repubblica popolare cinese – che rivendica il territorio dell’isola anche se il Partito comunista cinese non l’ha mai governata. Nell’ultimo anno e mezzo, Pechino ha usato il suo potere politico per convincere un gran numero di paesi a rafforzare la loro posizione di sostegno a una eventuale invasione di Taiwan. Secondo i dati dell’Economist e del Lowy Institute, “alla fine dello scorso anno, 119 Paesi – il 62 per cento degli stati membri dell’Onu  – approvano la formulazione preferita dalla Cina che accetta la sua rivendicazione di sovranità su Taiwan. Di questi, 89 appoggiano anche gli sforzi per l’unificazione della Cina, e molti sostengono ‘tutte’ queste misure”. Pechino sta preparando la strada per quella che chiama la “riunificazione” a ogni costo, anche con il metodo della coercizione, evitando di fare la fine della Russia con le sanzioni e la condanna internazionale. E’ anche per questo che quando sabato scorso il primo ministro giapponese Shigeru Ishiba è andato alla Casa Bianca da Trump, molti osservatori in Asia orientale hanno apprezzato un altro cambiamento linguistico: nella dichiarazione congiunta, i due leader hanno sottolineato la loro “forte opposizione ai tentativi della Cina di cambiare lo status quo con la forza o la coercizione”, quindi non soltanto con un’azione militare ma anche con il metodo preferito da Pechino, quello del lento accerchiamento e del ricatto, della destabilizzazione impercettibile a livello internazionale. Un esempio su tutti: da tempo si parla dei permessi di residenza che la Repubblica popolare concede a sempre più cittadini taiwanesi, che si tramuta automaticamente in un documento ufficiale di identità di cittadinanza cinese. Per molti taiwanesi, soprattutto se hanno la famiglia o se lavorano in territorio cinese, un documento cinese rende i frequenti viaggi più facili e più sicuri (i poliziotti cinesi spesso fermano e interrogano i taiwanesi, per lo più per intimidirli). Ma secondo il Consiglio per gli Affari continentali di Taiwan il rilascio di documenti cinesi è non solo illegale, ma una tattica che abbiamo già visto usare, per esempio alla Russia nel Donbas prima dell’invasione su larga scala.  

 


Taiwan è costretta a navigare fra una Cina sempre più aggressiva e un’Amministrazione americana non ancora chiara sulla direzione che vorrà prendere sulla difesa della democrazia più sviluppata d’Asia. E si prepara: ieri Taiwan ha finalizzato l’accordo per l’acquisto dall’America di tre sistemi missilistici avanzati di superficie (Nasams) da oltre 750 milioni di dollari. E alle prossime esercitazioni militari Han Kuang, saranno coinvolte per la prima volta anche alcune brigate di riservisti. Resta un dilemma: l’unico modo per fermare la Cina dal prendersi Taiwan è la sua difesa da parte della comunità internazionale, ma prima che sia troppo tardi.

  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.