“Perché sui media il processo Rushdie non tira”. Parla Jay Solomon, in aula ogni giorno

Giulio Meotti

Il processo contro l'assalitore dello scrittore indiano naturalizzato britannico, l’enigma dell’attentatore Hadi Matar e l’Iran raccontati da chi è ogni giorno in aula

“La domanda che incombe su questo caso, dal momento in cui Salman Rushdie è stato portato via dal palco a New York, è se Hadi Matar stesse agendo su ordine dell’Iran e di Hezbollah”. Lo scrive Jay Solomon, premiato reporter americano che segue il processo per la Free Press di Bari Weiss. Matar è nato in California da immigrati libanesi che hanno divorziato quando era bambino. Si è trasferito nel New Jersey con la madre, mentre il padre è tornato nella città natale di Yaroun, in Libano, al confine con Israele controllata da Hezbollah. Funzionari americani hanno detto a Solomon che “il governo iraniano, come minimo, ha incitato Matar”. (Meotti segue nell’inserto VIII)
Mentre Teheran ha negato di essere dietro all’attacco a Rushdie, prove circostanziali indicano un ruolo di Teheran. Il dipartimento di stato ha sanzionato un’organizzazione iraniana, la Fondazione Khordad, che ha offerto un compenso a chiunque avesse ucciso Rushdie. La taglia è cresciuta fino a 3,3 milioni di dollari. Un’altra fondazione iraniana vicina al regime ha elogiato il tentato omicidio e ha promesso a Matar mille metri quadrati di terreno come ricompensa. Si sta indagando  sui viaggi passati di Matar nel Libano meridionale, cercando un collegamento tra l’aggressore di Rushdie e Hezbollah. Nel 2018, Matar ha fatto visita al padre a Yaroun, dove Hezbollah gestisce campi di addestramento, come  Imam al Mahdi Scouts. Al momento dell’arresto, Matar aveva con sé una patente di guida falsa del New Jersey a nome “Imad Mugniyah”, il pianificatore del terrorismo di Hezbollah assassinato in Siria nel 2008 da Israele. Tutto ciò suggerisce un terrorismo sostenuto dall’Iran o da Hezbollah, ma ancora non c’è la pistola fumante. 

 

“Finora Hadi Matar durante il processo è sembrato che volesse solo sparire” racconta al Foglio  Solomon, ex corrispondente del Wall Street Journal che segue il processo Rushdie. “Tiene la testa bassa per la maggior parte del procedimento, a volte sembra che si stia appisolando e, occasionalmente, sembra che stia prendendo appunti su un blocco giallo. Ma, per quanto ne so, potrebbe disegnare delle vignette! Il suo aspetto, testa rasata con barba, una larga camicia azzurra e pantaloni cadenti, sembra a metà tra un devoto combattente di Hezbollah e un adolescente americano deluso. Ma ogni mattina  al processo, Matar fornisce scorci di ciò che penso gli stia realmente passando per la testa. Il primo giorno, si è diretto dritto verso la fila di fotografi in aula e ha scandito a bassa voce: ‘Palestina libera... Palestina libera’. Il secondo giorno è stato: ‘Dal fiume al mare, la Palestina sarà libera’. La mia sensazione è che Matar voglia usare il processo, e probabilmente il secondo che affronterà per aver sostenuto Hezbollah, per fare propaganda a favore dell’Iran, di Hezbollah e delle forze islamiste che hanno chiesto la morte di Rushdie e l’eliminazione  di Israele”. Poca o scarsa l’attenzione mediatica sul processo. “Hai ragione: il caso Rushdie ha ricevuto sorprendentemente poca attenzione dai media. Ciò è particolarmente evidente se si ricorda la copertura generale che la stampa statunitense ha dato all’omicidio nel 2018 del dissidente saudita, Jamal Khashoggi, che viveva a Washington ed era un collaboratore del Washington Post. Parte di ciò può essere spiegato dalla violenza legata al caso Khashoggi, un giornalista smembrato nell’ambasciata saudita ad Ankara. I giornalisti americani sembravano fare causa comune con Khashoggi, anche perché a ucciderlo sono stati i sauditi considerati vicini a Trump. Ma il caso di Rushdie è stato altrettanto sanguinoso, e lui è uno scrittore e una figura culturale molto più importante. Inoltre, l’attacco è avvenuto dentro agli Stati Uniti, cosa che pensavo avrebbe suscitato un intenso interesse da parte dei media americani. E la storia della fatwa iraniana contro Rushdie è diventata una parte fondamentale  del conflitto dell’islam con l’occidente”. 
La storia di Rushdie potrebbe essere morta anche a causa della politica statunitense. “Sia Obama che Biden hanno perseguito l’impegno diplomatico con l’Iran. E i media statunitensi hanno ampiamente sostenuto questa strada. Concentrarsi sull’attacco a Rushdie e sul possibile coinvolgimento dell’Iran o di Hezbollah non giova ai colloqui con Teheran. Al contrario, qualsiasi prova del coinvolgimento iraniano nell’attacco solleverebbe l’ovvia domanda: cosa farà ora Washington al riguardo?”. 
Quanto al movente, che il procuratore incaricato del processo Rushdie sembra non voler evocare, Matar stesso lo ha indicato due anni fa in una intervista dal carcere: “Rushdie ha offeso l’islam”. Eppure, il procuratore incaricato dell’accusa sembra determinato a trasformare il processo quasi in un caso di tentato omicidio stradale. 
 Due giorni fa, in aula, Rushdie ha guardato nella direzione dell’imputato. “Sono rimasto molto colpito dai suoi occhi, che erano scuri e mi sembravano molto feroci”, ha detto Rushdie del suo aggressore. Il giudice David Foley ha stabilito che questa descrizione era  pregiudizievole per Matar, ha ordinato alla giuria di ignorarla e l’ha cancellata dal verbale del processo. Ma tutti in aula e nel mondo l’hanno sentita. Almeno chi voleva vedere e sentire.

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.