Donald Trump e Giorgia Meloni (Ansa)

L'opinione

L'Italia ha una chance con Trump, ma non come suo portavoce

Raffaele Borriello

Dazi, catene globali e agricoltura. Giorgia Meloni potenziale mediatrice con gli Stati Uniti come rappresentante di un grande paese fondatore dell'Unione europea capace di conquistarsi il ruolo di dialogare con il partner d'oltre oceano

Nello scenario globale di possibili guerre commerciali che si va delineando, potrebbero crearsi le condizioni per un ruolo dell’Italia e del Presidente del Consiglio Giorgia Meloni come mediatrice tra Trump e Unione europea. Conquistare questo ruolo sarebbe un bel colpo, sia per non accontentarsi di raccogliere le briciole della benevolenza del più forte nell’ambito di negoziati bilaterali come quelli che vorrebbe Trump; sia per riscuotere nell’UE il riconoscimento di un ruolo autorevole dell’Italia, associato allo status di grande Paese fondatore e al suo possibile posizionamento baricentrico.


Del resto, l’Italia è oggettivamente protagonista interessata nel dialogo con Trump, con un surplus commerciale di oltre 40 miliardi di euro nei confronti degli USA, frutto di 67 miliardi di esportazioni contro 25 miliardi di importazioni. Una partita in cui il Made in Italy agroalimentare contribuisce in misura significativa, con esportazioni pari a quasi 7 miliardi di euro che fanno degli USA (con una quota del 10,4%) la terza destinazione vendite all’estero di food, dopo Germania (15,8%) e Francia (11,2%).

La posta in gioco è molto alta e siamo alle fasi iniziali di un percorso non breve e non scontato nei suoi passaggi, anche se l’insofferenza trumpiana tenderebbe a renderlo o a farlo apparire semplice e veloce. Si ripropone su larga scala la strategia già sperimentata con America first e proseguita dallo stesso Biden, il quale gran parte dei dazi imposti da Trump li ha mantenuti, sia pure con toni più pacati e più sotto traccia. Una strategia che mette definitivamente in soffitta la globalizzazione promossa dalla WTO alla fine del secondo millennio, basata sulla liberalizzazione commerciale su base multilaterale e segnata dall’egemonia dell’occidente e, al suo interno, degli Stati Uniti.


E’ anche vero che – almeno per ora – l’amministrazione americana ha fatto un uso più che altro tattico e muscolare dei dazi come arma negoziale più che come effettiva misura commerciale, come dimostra la subitanea sospensione di quelli annunciati ai danni di Canada e Messico in cambio del maggior presidio delle frontiere contro immigrarti e contrabbando di droga. Ma insieme alla tattica c’è anche una strategia a lungo termine, declinata con ritmi più concitati rispetto alla lenta evoluzione geopolitica del passato: siamo infatti nel pieno di una crisi di identità dell’Occidente che Trump tende a velocizzare, nella ricerca di un nuovo ordine economico internazionale compatibile con un mondo multipolare, ma i cui contorni e il cui assetto sono ancora tutti in formazione.


Al di là delle minacce a partner deboli (Canada e Messico), delle punzecchiature alla Cina e degli annunci di dazi reciproci applicati in modo sistematico, l’amministrazione americana non ignora i danni di una guerra commerciale vera, che sarebbero moltiplicati dalla presenza delle catene globali del valore; queste, infatti, dietro l’import-export di prodotti finali prevedono fitti scambi di prodotti intermedi che varcano più volte le frontiere, esaltando l’effetto negativo dei dazi sui costi e sui prezzi, anche a danno del paese che li impone.


In questo quadro, forse non è un caso che per ora all’Europa siano arrivate solo minacce, il cui scopo non è quello di distruggerla – perché dell’Europa gli Stati Uniti hanno bisogno – ma probabilmente di accelerare la rottura del suo attuale assetto, per poi ricomporne i pezzi in modo più compatibile con i nuovi scenari geopolitici in formazione: un percorso altamente incerto e rischioso che a essere (molto) ottimisti si potrebbe definire di “distruzione creativa”. Con altrettanto ottimismo, in questo percorso di “distruzione creativa” l’Italia potrebbe avere un ruolo cruciale; sempre che riesca a conquistare il posizionamento baricentrico di cui si è detto, senza farsi trascinare in una dialettica europea banalmente polarizzata tra i nuovi sovranisti e il vecchio e superato asse franco-tedesco: quest’ultimo va certo ridimensionato e ridefinito, ma della Francia e della Germania, delle loro economie, delle loro tecnologie e del loro patrimonio di conquiste civili c’è ancora bisogno e si tratta di attori non facilmente sostituibili dall’Ungheria o dalla Polonia per esempio.


Dunque, grande occasione per l’Italia e la premier Meloni, potenziale mediatrice nella dialettica tra USA ed Europa nei nuovi assetti geopolitici; ma è importante che l’Italia non appaia come la portavoce dell’amico Trump in Europa, piuttosto il contrario: un grande paese fondatore dell’UE, capace di conquistarsi il ruolo di parlare a nome dell’Europa con il partner d’oltre oceano. E che, soprattutto, confermi la indisponibilità dei singoli governi europei a “fare da soli” e a trattare bilateralmente con Trump.


Se questo è lo scenario geopolitico, sul piano economico il modo giusto di affrontare l’incertezza e le turbolenze che lo caratterizzano è quello di trasformarle in opportunità: una ragione di più per puntare su strategie competitive basate qualità e distintività, per definizione meno vulnerabili alle guerre commerciali e, alla lunga, vincenti. Una risposta in positivo in cui l’Italia avrebbe tutto da guadagnare e molto da insegnare, come mostra il successo del suo Made in Italy, di cui l’agroalimentare è un esempio consolidato.  
 

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