Il caso

La normalizzazione nell'ombra tra sauditi e israeliani: fatti, progetti e il futuro di Gaza

Sharon Nizza

Come si muove dal 7 ottobre il processo di avvicinamento tra Israele e Arabia Saudita, tra libri di scuola, spazio aereo, commercio, tecnologia e giornali. La regola principale: lavorare nell’ombra, anche sul futuro della Striscia

Gerusalemme.  Per lunghi mesi, dall’inizio della guerra in corso tra Israele e Hamas, il desolato tabellone delle partenze all’aeroporto Ben Gurion ci ha raccontato una storia: a fronte delle innumerevoli cancellazioni di voli da parte di compagnie internazionali, una delle poche destinazioni sempre presenti sono gli Emirati Arabi Uniti, che attraverso la low cost flydubai ed Etihad che vola su Abu Dhabi, hanno sostituito  Istanbul come principale hub per i viaggiatori che partono da Israele. A oggi – mentre le compagnie globali iniziano a riprogrammare i propri voli  – ci sono quindici voli quotidiani Israele-Emirati. Tutti, comprese le tre compagnie aeree israeliane che percorrono questa tratta, sorvolano l’Arabia Saudita, una concessione che riduce drasticamente la durata del volo, che è stata fatta già nel settembre 2020, con la firma degli Accordi di Abramo e da allora mai revocata. La propensione verso la tanto discussa normalizzazione tra Gerusalemme e Riad si misura anche attraverso il cielo mediorientale, che ha assistito a cooperazioni ben più drammatiche avvenute nell’ambito della più ampia guerra dell’“asse della resistenza” guidato dall’Iran contro lo stato ebraico e formato allora da Gaza, Iraq, Yemen, Siria e Libano – oggi, per l’effetto domino senza precedenti innescatosi dopo l’attacco del 7 ottobre, Siria e Libano stanno tentando di ricollocarsi nella sfera di influenza sunnita di Riad, quanto a Gaza: è il fulcro dei negoziati in corso. Per contrastare l’attacco di missili e droni iraniani della notte del 13 aprile dello scorso anno, anche la Giordania e l’Arabia Saudita hanno fatto  la loro parte, garantendo libertà di manovra sul proprio spazio aereo agli alleati. Prima ancora, Riad, che non si è formalmente unita alla coalizione per la difesa della tratta marittima sul Mar Rosso contro gli houthi, ha invece intercettato sul proprio territorio missili lanciati dallo Yemen contro Israele. Ogni tanto viene fatto anche trapelare qualche incontro strategico ai massimi livelli:  a giugno, quando il giornalista Barak Ravid ha rivelato che il capo di stato maggiore dell’Idf (l’esercito israeliano)  ha incontrato segretamente in Bahrein, sotto l’egida Centcom, figure di spicco dell’esercito saudita.


Diversi indicatori raccontano che il flirt tra israeliani e sauditi va avanti, nonostante le immagini di devastazione che arrivano da Gaza e le pubbliche dichiarazioni dei leader arabi.  “Il fatto che la normalizzazione silenziosa continui durante la guerra è un segno importante degli interessi forti che stanno dietro a questa alleanza”, dice al Foglio il prof. Elie Podeh del dipartimento di Studi mediorientali dell’Università ebraica di Gerusalemme, e autore di un volume illuminante, Da amante a coppia di fatto: le relazioni segrete di Israele con i Paesi del medio oriente e le  sue minoranze, 1948-2020, che mappa la complessa dinamica che ha portato Israele, dalla sua fondazione, a instaurare relazioni con i suoi vicini. “La normalizzazione ha molti volti. Un modello è caratterizzato da relazioni bilaterali, principalmente segrete, senza l’instaurazione di relazioni diplomatiche. Questa è la situazione in cui Israele si è trovato ripetutamente nell’immediato della sua dichiarazione d’indipendenza, fino agli accordi di pace con Egitto, Giordania, gli Accordi di Oslo e infine agli Accordi di Abramo”.


“La pace è un processo che si cucina lentamente, a fuoco basso, per anni”, aggiunge Ohad Merlin, corrispondente per il medio oriente del Jerusalem Post. “Nel caso di Israele e Giordania, anche durante i periodi di guerra, il re Hussein e la leadership israeliana collaboravano sottobanco  ben prima della firma ufficiale del 1994. In anni più recenti, abbiamo potuto vedere delegazioni israeliane a incontri di business, eventi sportivi o di organizzazioni internazionali sul suolo di diversi paesi del Golfo prima della firma  di relazioni ufficiali. Ciò ha permesso di creare rapporti di fiducia e persino di amicizie tra i partecipanti. Tuttavia, nonostante le prospettive positive, per una pace prospera e duratura, è necessario sottolineare l’importanza dell’educazione alla tolleranza sia nei media sia nel sistema educativo: la normalizzazione dell’esistenza stessa degli ebrei, degli israeliani e dello stato ebraico nella regione è direttamente correlata a processi di deradicalizzazione, apertura e tolleranza”. E così, mentre lo scorso dicembre la comunità ebraica dei Chabad accendeva per la prima volta un candelabro nel cuore di Riad per la festività di Channukkà – da anni distribuisce cibo kasher nel Regno saudita alla folta comunità di expat ebrei – anche nel settore dell’educazione è possibile notare alcuni cambiamenti indicativi. Nel maggio scorso, una ricerca ha rivelato che il ministero dell’Istruzione saudita ha apportato modifiche significative all’attuale curriculum scolastico, rimuovendo molti contenuti anti israeliani (e antisemiti) dai libri di testo. Il rapporto di 267 pagine stilato da IMPACT-se, una ong di stanza a Londra e Tel Aviv che analizza i contenuti dei libri di testo in tutto il mondo per incoraggiare pace e tolleranza secondo gli standard Unesco, riporta molti esempi e conclude: “Le rappresentazioni di Israele e del sionismo hanno fatto ulteriori progressi. Gli studenti non apprendono più contenuti che definivano il sionismo come un movimento europeo ‘razzista’ che mira a espellere i palestinesi, o che ‘l’obiettivo fondamentale’ del sionismo è espandere i suoi confini e impossessarsi delle terre arabe, dei pozzi petroliferi e dei luoghi santi islamici e cristiani a Gerusalemme”. Israele non è ancora riconosciuto sulle mappe, ma, fatto curioso, in molte cartine il nome Palestina, che prima indicava tutta l’area dal “fiume al mare”, è stato rimosso e l’area rimane innominata. Lo stesso processo di deradicalizzazione dei testi scolastici era stato monitorato dalla ong a partire dal 2014 negli Emirati, che dal 2023 sono diventati il primo paese arabo a inserire ufficialmente nel curriculum scolastico alcuni elementi di studio della Shoah.

 


Abdalaziz Alkhamis, giornalista saudita di stanza a Dubai e volto noto di Sky News in arabo, conferma al Foglio che “la normalizzazione ha subìto un rallentamento strategico piuttosto che un freno. Sebbene Riad abbia condannato pubblicamente le azioni militari di Israele e sospeso i colloqui formali di normalizzazione, i canali diplomatici indiretti sono rimasti aperti. Anche sul fronte degli scambi economici sottobanco, sebbene le collaborazioni visibili siano diminuite, non sono completamente cessate”. Chi ne sa qualcosa di scambi commerciali con i Sauditi è la dottoressa Nirit Ofir, ricercatrice israeliana specializzata nei paesi del Golfo, che ha organizzato innumerevoli delegazioni in Arabia Saudita con partecipanti identificati apertamente come israeliani, partendo nel 2021 con il rally Dakar, fino alla delegazione di 12 aziende del settore cyber (con tanto di bandierina allo stand israeliano) a Dammam, un mese prima dell’attacco del 7 ottobre. “Dopo il 7 ottobre va tutto  a rilento, ma non è possibile fermare il percorso avviato”, dice al Foglio Ofir, che non ha mai smesso di visitare l’Arabia Saudita nemmeno in questi mesi. Interessante in questo senso anche il lavoro di MENA2050, un’organizzazione che riunisce dal 2021 centinaia di attivisti ed esperti di tutta l’area mediorientale (israeliani e palestinesi inclusi) per collaborare nell’offrire soluzioni tangibili rispetto alle sfide principali dell’area, in primis cambiamenti climatici e sicurezza idrica e alimentare, settori in cui l’expertise israeliano è altamente valutato e richiesto. Eli Bar-On, direttore e cofondatore (insieme al saudita Alkhamis), conferma al Foglio che “in Arabia Saudita c’è già tecnologia israeliana. I sauditi la vogliono acquistarla perché è considerata di alta qualità. Bin Salman stesso ha affermato che la sua ‘Vision 2030’ include Israele come alleato, ma solo sei mesi fa ha anche detto che teme di fare la fine di Sadat per questo”.

 


La piazza ha il suo peso, ma Alkhamis evidenzia che, dall’inizio della guerra a Gaza, “mentre la percezione del pubblico è diventata più dura contro la normalizzazione, le élite mantengono un interesse strategico a lungo termine nel tenere aperta questa possibilità, anche se con nuove condizioni e aspettative”. Alkhamis sottolinea che i media sauditi sono rimasti moderati su Israele, il problema lo si rileva invece sui social: più apertamente ostili.
Sull’aspetto mediatico, nell’ultimo anno è apparso un altro segnale che pure richiede una certa misura di decifrazione: una serie di editoriali e interviste pubblicate sulla stampa israeliana del ricercatore Aziz Alghashian, esperto saudita di normalizzazione con Israele. Il chiaro messaggio che manda è che la normalizzazione deve prevedere “misure forti, credibili e concrete che si inquadrino nella soluzione ‘due popoli, due stati’, perché i sauditi hanno bisogno di legittimità interna”, spiegava Alghashian al popolo d’Israele dalle colonne di Israel Hayom solo dieci giorni fa. Un evidente esempio di soft power diplomacy: le sue parole stampate a firma aperta su carta israeliana (dalla sinistra di Haaretz al mainstream di Israel Hayom) costituiscono di per sé un precedente, un atto di riconoscimento dell’interlocutore, in genere “innominato” (come per le mappe nei libri scolastici). Alghashian dice anche che “gli obiettivi primari dell’Arabia Saudita in qualsiasi accordo si concentreranno sui propri interessi economici e di sicurezza” e che questi sono determinati dal livello di “concessioni” che Riad deve ricevere “sia dagli Stati Uniti sia da Israele”. Abdelaziz AlKhamis spiega al Foglio che Mohammed bin Salman potrebbe contribuire nell’assetto post bellico di Gaza su diversi fronti: “Aiuti finanziari per la ricostruzione, sebbene probabilmente attraverso quadri internazionali piuttosto che iniziative unilaterali; influenza sulla nuova leadership palestinese che riduca il potere di Hamas; sforzi di deradicalizzazione, in linea con la promozione di un Islam più moderato in Arabia Saudita stessa, parte integrante della Vision 2030”. In che modalità pratiche tutto ciò avverrà, è esattamente la risposta che la Casa Bianca ora attende dai suoi alleati arabi in medio oriente, dopo aver lanciato al rialzo la trattativa con l’enigmatica proposta di Trump sulla “Riviera di Gaza”. 

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