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Donald Trump (Ansa)
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Con l'assurdo caos dei “dazi reciproci”, Trump prova a copiare Roosevelt, con risultati opposti
Il presidente americano sembra ispirarsi al Reciprocal Tariff Act, approvato nel 1934. Una misure che, pur partendo da premesse simili (alcuni paesi trattavano in modo ingiusto gli Stati Uniti), arrivava a conclusioni totalmente diverse, promuovendo trattati bilaterali per ridurre i dazi
Si sapeva fin dal primo giorno: al centro della politica economica della seconda Amministrazione di Donald Trump ci sarebbero stati i dazi. Usati in modo ancora più spregiudicato rispetto al primo mandato, quando venivano usati soprattutto per contrastare la percepita concorrenza sleale da parte della Cina così come di un’Unione europea che, secondo il tycoon, “invadeva” il mercato americano con le sue auto. Un correttivo insomma.
Questa volta invece i dazi sono usati in modo strutturale per riportare l’America alla sua “età dell’oro”, che secondo Trump corrisponde alla fine dell’Ottocento, quando sotto la presidenza del repubblicano William McKinley veniva avviata la stagione dell’aggressivo imperialismo nei confronti dell’America latina, si sviluppava in modo impetuoso un’industria senza regolamentazioni federali e con i sindacati in fase embrionale trattati come organizzazioni sovversive e fuorilegge. Ma soprattutto, grazie alla vicinanza tra la Casa Bianca e il mondo del business, si mettevano alti dazi all’ingresso di merci straniere per favorire sfacciatamente la produzione interna, conferendogli un monopolio di fatto.
Trump ha annunciato l’altro ieri che intende fare un passo in più e introdurre un principio di reciprocità nei dazi. Nessun aumento unilaterale, come ventilato pretestuosamente a fine gennaio contro Canada e Messico prima di sospendere la cosa per un mese in modo altrettanto assurdo, ma soltanto “reciprocità”. Cosa vuol dire? Lo spiega molto bene il Wall Street Journal: di fatto è come delegare agli altri paesi la propria politica economica. Se un paese impone un dazio del 10 per cento su un prodotto agricolo, si risponde con un balzello identico. Per assurdo, se un paese come la Nuova Zelanda non imponesse dazi sui prodotti caseari americani, gli Stati Uniti dovrebbero fare lo stesso. Ancora più bizzarro appare il fatto che questo principio si applicherebbe ad alleati come l’Unione europea, il Giappone e la Corea del sud così come ad avversari noti come la già citata Cina comunista. Per sapere cosa verrà applicato e quando, bisognerà aspettare l’uscita di uno studio onnicomprensivo il prossimo primo aprile. Un compito che appare assai arduo: i beni in oggetto sono circa 2 milioni e mezzo di tipologie. E questo apre la via per i lobbisti a far sì che certe merci rientrino negli insiemi più vantaggiosi, aprendo a una serie di trattative dietro le quinte con l’amministrazione.
Sembra un modo caotico di gestire la politica economica. Però risulta perfettamente coerente con il modo trumpista di governare: far sì che tutti cerchino il suo favore che può arbitrariamente concedere oppure no, in cambio magari di qualche altro favore che non sappiamo ancora in cosa possa consistere. Per di più, tutto questo innalzamento tariffario (perché difficilmente in qualche settore verranno abbassate) dovrebbe portare a un rafforzamento dell’inflazione sui beni di consumo, il famoso prezzo delle uova su cui il ticket repubblicano ha fatto una campagna elettorale martellante fino allo scorso 6 novembre.
Uno studio del Cato Institute, think tank di orientamento liberista, ha individuato che sulla maggior parte dei beni importati, gli Stati Uniti hanno un regime tariffario ben più alto dei partner. Quindi, in teoria, vorrebbe dire abbassare i dazi, cosa che non avverrà, ma invece avverrà che le industrie con i lobbisti meno bravi probabilmente dovranno sottostare a un regime inutilmente punitivo. Anche perché, e ci sono ampi precedenti storici al riguardo, i dazi porteranno a un maggiore isolamento degli Stati Uniti sulla scena mondiale dato che sempre più verranno visti come un partner inaffidabile. Una crociata ideologica che non ha nemmeno il senso che poteva avere nel 2017-21, dato che difficilmente si salverà da questa furia protezionista anche il trattato di libero scambio firmato con Canada e Messico nel 2018 e denominato Usmic, nato revisionando il vecchio Nafta risalente al 1992. C’è un precedente, in realtà, che risale ai tempi di Franklin Delano Roosevelt e che si chiamava proprio Reciprocal Tariff Act, approvato nel 1934 che però, pur partendo da premesse simili (alcuni paesi trattavano in modo ingiusto gli Stati Uniti), arrivava a conclusioni totalmente diverse, promuovendo trattati bilaterali per ridurre i dazi. La misura, voluta fortemente dall’allora segretario di Stato Cordell Hull, avrebbe poi posto le basi per la costruzione del soft power americano nel secondo Dopoguerra. Quello stesso “impero gentile” che oggi appare sul punto di sgretolarsi.