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(foto Ansa)
L'editoriale dell'elefantino
In bocca a Trump e Vance “pace” è diventata una parola sinistra
Era una rete protettiva della dignità, della cultura, della comune umanità, con molti equivoci, anche. Ma oggi nell’ansia del negoziato trilaterale delle autocrazie si è trasformata in un incubo commerciale, uno sfregio al meglio della storia d’Europa
Di questi tempi tragicamente interessanti la cosa che immalinconisce di più è il destino della parola pace, PACE: è diventato un termine sinistro. Da piccolo alla marcia Perugia-Assisi mi misero in mano un cartello che diceva “vogliamo crescere in pace”, e siccome ero più che cicciottello, tutti i compagni di strada ridevano bonariamente all’idea che chiedessi di crescere ancora di più. Poi la guerra, di cui avevo sentito dai genitori e dai nonni, come tutti i boomer, l’ho vista direttamente nella forma spietata, orrenda, della guerra civile libanese, nei campi, nella valle della Bekaa. Ne ho provato una naturale, infinita ripugnanza. Erano i tempi della violenza e della brutalità terroristica anche in casa, in Italia, a Torino, dove paura e pietà si rincorrevano nell’inesprimibile delirio dell’ideologia e del terrore. Pace è sempre stata parola alta, importante, magari colma di equivoci, già a partire dal 1938, quando alla pace si sacrificavano stoltamente confini sovrani e diritti dei popoli, ma pace era un orizzonte ineludibile dopo i disastri novecenteschi in Europa.
Pace era una rete protettiva della dignità, della cultura, della comune umanità, specie negli anni della paura nucleare e dell’equilibrio della deterrenza reciproca. In quella rete finivano i pesci velenosi del comunismo, che era pacifista ma non pacifico, e quelli del mondo libero, che si difendeva con mezzi propri e obliqui, subdoli, espressione della forza e della brutalità coloniale del mondo libero.
Degli infiniti equivoci intorno alla parola che rassicura e protegge abbiamo tutti subito, specie i più deboli della storia, conseguenze disastrose, ma il concetto di pace non aveva alternative e per lunghi anni è stato un aggancio strategico per la coesistenza, per la gara tra regimi diversi, infine per la vittoria tonante e guerriera, ma di velluto, sull’oppressione a est. La pace di Giovanni Paolo II e di Ratzinger, di Havel e molti altri, era mescolata con l’agostinismo della guerra giusta, una vetta teologica e di cultura cattolica, universale, si giustificava perché innalzava con sé i simboli anche madonnari, totemici, della libertà, della resistenza e della non negoziabilità dei princìpi ultimi e primi.
In apparenza, e sperando di essere in errore, la pace in bocca a Trump e Vance è trasformata in un incubo commerciale, nella protezione esclusiva di un’idea egoista ed egotica di benessere delle classi dominanti, anche del ceto medio impoverito, è uno sfregio al meglio della storia d’Europa, non è più dispendio di equivoci e speranze, è un risparmio a spese di milioni di creduloni che la devastazione della guerra, dei pogrom, delle dissennatezze belliche hanno subito e subiscono e sulla cui testa oggi esplode, dopo Kabul, dopo il ritorno dei tagliagole, dopo il 7 ottobre e il ritorno degli ostaggi sfigurati, l’ansia del negoziato trilaterale delle autocrazie o delle democrazie illiberali che affermano un dominio del silenzio e della disdetta scavalcando problemi e verità politiche, erigendo un muro di sicurezza il cui basamento è la menzogna.