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Ciao, sono Navalny

Micol Flammini

Cosa rimane della lotta russa contro il Cremlino dopo la morte del suo rappresentante più corrosivo e famoso. Il “funerale della dissidenza”

Privet, eto Navalny. Ciao, sono Navalny. Sono bastate tre parole e tutto è cambiato nella guerra all’informazione di Vladimir Putin. Alexei Navalny aveva avuto un’intuizione: piazzarsi dove il Cremlino non aveva ancora trovato spazio, perché troppo occupato a esercitare la sua pressione con i vecchi arnesi della comunicazione, e usare come arma l’ironia, la più feroce, scorticante, indigesta per il presidente russo, abituato a non sorridere e a mostrare i muscoli. “Privet, eto Navalny” era il saluto di un nuovo modo di fare politica, in cui l’oppositore aveva deciso di non parlare soltanto di democrazia, brogli elettorali, ma di mettere al centro di tutto un tema in grado di far imbestialire i russi: la corruzione. Va ripercorsa dall’inizio la carriera di Navalny, avvocato moscovita, carismatico, innamorato di sua moglie Yulia, che è diventata la sua compagna nella vita e nella lotta. Alti, giovani, figli dell’élite russa che si era ripensata e reinventata dopo la caduta dell’Unione sovietica, la loro sola immagine era diventa la contrapposizione perfetta al presidente senza capelli, con una ex moglie che aveva tentato di nascondere non meno delle sue successive amanti. Invece i Navalny erano sfacciati nel mostrare il loro amore, sempre insieme, abbracciati, con i loro baci esibiti in pubblico. Erano un marchio autoprodotto, perfettamente consapevole che a ogni loro azione, sorriso, immagine da copertina dovesse corrispondere la didascalia che nessun quotidiano o rivista ha mai osato scrivere: Alexei e Yulia, guardatela la Russia che si immagina nel futuro e che non assomiglia affatto a Vladimir Putin, “il nonno nel bunker”. 
Gli esordi politici di Navalny furono a seguito dell’uomo che prima di lui e ancora più di lui era riuscito a insidiare il presidente russo. Boris Nemcov è stato tra i primi ad accorgersi verso dopo puntava la marcia politica di Putin, pronto a spennare la fragile e mai davvero nata democrazia russa. Lo sfidò da subito, attorno a lui si concentrava un gruppo di giovanissimi, che sognavano una Russia diversa, quella promessa con la fine dell’Unione sovietica. Quella Russia non arrivò mai. Nemcov divenne la voce che la politica non voleva sentire, ma i più giovani, soprattutto cittadini, pendevano dalle sue labbra. Nemcov aveva creato attorno a sé la classe politica del futuro, affidava mansioni, si coordinava. Tutto quello che era opposizione e che lo sarebbe diventato negli anni a venire partiva da lui. Le due colonne del progetto erano Vladimir Kara Murza e Navalny. Il primo intellettuale, scrupoloso, studioso delle procedure democratiche. Il secondo carismatico, incendiario, in grado di attirare l’attenzione su di sé e di trasformare la forza in un movimento costante, anche arrabbiato. Kara-Murza e Navalny sono state due figure molto diverse, ma partite dalla stessa fonte, dalla costanza di Nemcov, dalla sua fabbrica di idee e speranze. Le proteste di piazza contro i brogli di Putin, contro la staffetta con Medvedev furono grandi, partecipate, misero in crisi il presidente russo che reagì con violenza e Nemcov venne ucciso mentre camminava lungo il ponte Bolšoj Moskvoreckij, tanto vicino al Cremlino da dare tutto il senso dell’esecuzione. Per la morte dell’oppositore vennero arrestati cinque ceceni. “Fu quello il momento in cui smettemmo di credere che il cambiamento fosse possibile”, aveva raccontato al Foglio Anastasia Shevchenko durante un incontro a Vilnius, mentre con gli occhi tristi elencava la fine dei suoi compagni di lotta, ma ogni tanto esprimeva una forza seria, disorganizzata e speranzosa che l’opposizione fosse ancora in grado di cambiare qualcosa. 
La morte di Nemcov fu anche il momento in cui l’opposizione si rese conto di aver fornito al capo del Cremlino il pretesto per essere etichettata come un movimento cittadino, snob, lontano dalla gente comune e dalle necessità della Russia. Poi iniziarono a emergere le differenze, le rimostranze, l’opposizione si disperse nei mille rivoli in cui è divisa ancora oggi. Le fratture si sono create su tutto: sulla modalità di lotta, sulla politica estera, sul significato della parola democrazia. Navalny non è stato un curatore delle divisioni, le ha accentuate, coltivate, si è allontanato dalla maggior parte degli altri oppositori, alla ricerca di una purezza del dissenso che era impossibile raggiungere. Aveva un’arma però che gli altri non possedevano ed era la sua Fondazione anticorruzione (Fbk). La funzione della Fbk era di trovare le prove del marcio evidente del regime russo. Non seguire i brogli, non seguire le fratture democratiche, ma far emergere la corruzione. Il principio che ha ispirato l’avvocato Navalny è stato: Putin si racconta come il difensore dei russi, ma chi ruba per prendere e dare ai suoi fedelissimi non è forse un traditore? Ville, appartamenti, attici, piscine dorate, bagni con stanze segrete, discoteche con pali per la lap dance in casa. Il presidente, i suoi funzionari e i suoi oligarchi avevano più di quello che un russo potesse desiderare e se lo avevano, quando parte della popolazione viveva e vive ancora senza avere il bagno in casa, è perché lo prendevano proprio ai cittadini. Dava fastidio? Moltissimo. Inchiesta dopo inchiesta, Navalny e la sua squadra iniziarono a colpire chiunque, facendo emergere che non esisteva nessuno con accesso alle stanze auree del Cremlino che non si fosse abbeverato alla fonte delle ricchezze russe, sperperandole. Di Navalny si iniziò a parlare sempre di più, ma non abbastanza per diventare l’alternativa. Putin iniziò a capire tardi il potenziale di Navalny, come iniziò a capire tardi il potere di internet che per anni è stato il rifugio della dissidenza. Contrapponeva agli sforzi comunicativi degli attivisti una televisione sempre più propagandistica al limite dell’inverosimile, lasciando corridoi di libertà laddove non aveva avuto lo spirito arguto di andare a controllare. A Navalny bloccò la strada per la politica, ma lasciò aperta la porta di internet. 
Privet, eto Navalny. Ciao, sono Navalny, divenne il messaggio con cui l’oppositore si presentava a chi voleva ascoltarlo. Si metteva davanti a una telecamera, salutava, e raccontava le sue inchieste, le notizie che la propaganda non dava o diversamente da come le dava la propaganda. Raccontava barzellette che avevano sempre come protagonista Putin e i suoi: la derisione del leader era un fatto che per il presidente russo non doveva essere ammesso, invece divenne quotidiana, serrata e la pandemia con la decisione del capo del Cremlino di nascondersi e non farsi mai vedere in pubblico, di apparire sempre in video nella stessa stanza, sottoporre a chi andava a trovarlo una trafila sanitaria su cui il meglio della fantascienza aveva iniziato a ricamare su, offrirono diversi spunti di canzonatura. Mentre Putin stava nascosto nel bunker sanitario, organizzava referendum per rimanere al potere oltre ai due mandati consecutivi consentiti dalla Costituzione, Navalny girava la Russia per promuovere la sua strategia di voto: votate tutti, ma non Russia Unita, il partito del presidente. Lo chiamava “voto intelligente” e secondo l’oppositore era l’unica breccia possibile per far cadere prima o poi il sistema. Lui e i maggiori oppositori erano esclusi dalle elezioni ormai da tempo, l’unico modo per far tremare Putin poteva essere rendere più complessi i brogli e mettere la cosiddetta opposizione sistemica – l’opposizione tollerata da Cremlino come prova che la competizione elettorale era una gara vera e il partito del presidente primeggiava contro una schiera di partiti contrari – nelle condizioni di ottenere più voti di quanti avesse messo in conto. Era arrivato ovunque Navalny per proporre la sua strategia. Aveva battuto città per tutta la Russia e nel 2020 era in Siberia, a Tomsk, quando dopo aver trascorso alcuni giorni con la sezione locale della sua Fbk, mentre era sull'aereo che avrebbe dovuto riportarlo a Mosca, iniziò a gridare, a contorcersi: era stato avvelenato. Da quel momento il suo scontro con Putin divenne un corpo a corpo, perché Navalny non soltanto aveva osato salvarsi, era pure stato trasferito in Germania per le cure e un laboratorio tedesco aveva svelato che l’oppositore era stato avvelenato con un nervino molto potente, il Novichok. Ma soprattutto Navalny aveva osato tornare in Russia. 
Lo fece dopo aver preparato una grandissima inchiesta sul palazzo di Putin, un regno del lusso pacchiano e sfrenato, e dopo aver costretto un agente dell’Fsb, i servizi di intelligence interni della Russia, a svelare come era avvenuto il suo avvelenamento: con il nervino nelle mutande. Lo fece parlare chiamandolo e fingendosi un superiore: si beffò di Putin e dell’Fsb. E poi tornò in Russia con Yulia al suo fianco. Presero un volo carico di giornalisti. Yulia registrò un video: “Malchik, vodochki nam prinesi! My domoj letim!” (Ragazzo, portaci la vodka, andiamo a casa). Prese la frase di un film famoso, visto e stravisto in Russia, “Brat 2” di Balabanov. La frase in Russia è citata per varie occasioni, soprattutto per dire che c’è qualcosa da festeggiare dopo aver concluso con successo una missione – durante i Mondiali del 2018, per esempio, veniva tirata fuori ogni volta che la nazionale russa eliminava una squadra concorrente. La missione compiuta per i Navalny era che Alexei era vivo, aveva vinto contro il Novichok e contro Putin, ma Yulia probabilmente sapeva che ci sarebbe stato poco da festeggiare: suo marito stava volando verso una Mosca blindata e pronta al suo arresto. Il ritorno fu un messaggio, una sfida comunicativa: il linguaggio paludato di Putin, ormai ridotto a una forma di non-linguaggio, contro la coppia telegenica che sforna frasi cult, talmente perfetta da essere un modello per una certa parte della Russia. Navalny venne arrestato, diede un ultimo bacio a Yulia a favore di telecamere e da quel momento divenne un prigioniero dietro un scatola di vetro: appariva nei processi nel posto riservato agli imputati nei tribunali, dietro una lastra che divide oppositori, giornalisti, ostaggi del regime dal resto del mondo. La prima condanna in Russia fu di due anni e mezzo di reclusione, poi si aggiunsero altre condanne. L’intento del Cremlino era nascondere Navalny, silenziarlo, farlo dimenticare. Portarlo più lontano possibile dal centro della Russia. “Per Putin a un certo punto Navalny non era più un semplice oppositore che doveva essere osteggiato, era diventato un traditore”, aveva detto al Foglio l’analista e storico Mark Galeotti nel descrivere l’accanimento contro l’avvocato dissidente avvelenato rinchiuso infine ucciso. 
Alexei Navalny è morto il 16 febbraio del 2024, a Charp, nella colonia penale IK-3, in Siberia. Nei quattro anni di detenzione era stato messo in isolamento di continuo, spostato da una colonia penale all’altra, sottoposto ad altri processi: non appariva più dietro una lastra di vetro, ma smagrito con i capelli rasati, assisteva alla pronuncia delle sue condanne nelle stanze delle prigioni, a volte dietro le sbarre, con il “virus della libertà” che gli brillava negli occhi. Era stato il dissidente sovietico oggi israeliano Natan Sharansky a parlare del virus nel suo libro “Fear no evil”. Navalny lo lesse in prigione e scrisse a Sharansky che aveva conosciuto l’isolamento, il carcere duro, la repressione dell’Unione sovietica. La Russia di ieri come quella di oggi, lo Shizo – la stanza in isolamento – dell’Urss come quello di Putin. L’Unione sovietica di Sharansky e la Russia di Navalny inventori indefessi del vaccino contro il virus della libertà, sviluppato con ingredienti semplici, quotidiani: si imbavaglia un po’ la stampa qua e là, ci sono brogli qua e là, si influenzano i tribunali qua e là, “queste piccolezze e la convinzione che è possibile rendere moderno l’autoritarismo sono gli ingredienti di questo vaccino”, scriveva Navalny a Sharansky, imputando la colpa dello sviluppo del regime non tanto al potere, ma a chi non l’ha sorvegliato, quindi all’opposizione. 
Yulia che sembrava nata con Alexei, non era al suo funerale. Troppo rischioso sarebbe stato tornare in Russia. Ma ad accompagnare il feretro del dissidente c’era un numero inaspettato di russi, silenziosi con i fiori in mano, sotto gli occhi della polizia, accanto alla madre di Alexei che aveva lottato per farsi ridare il corpo del figlio. Navalny non era tutta l’opposizione, era il più vistoso degli oppositori, uno dei più organizzati, tra i più intransigenti. Non piaceva agli ucraini, che non hanno mai dimenticato le sue parole sulla Crimea. Non andava d’accordo con altri dissidenti. Oggi il navalnismo è scomparso, l’opposizione o è incarcerata o è all’estero. Litiga ancora molto, troppo, per poter preoccupare Putin. “Ho sempre avuto un sospetto – racconta un oppositore che preferisce rimanere anonimo per i legami che ancora conserva in Russia – il funerale di Navalny è stato l’ennesima crudeltà del regime. Ha lasciato che avvenisse, a favore di telecamere, con i cittadini presenti, per mandare un messaggio: partecipate pure al funerale della dissidenza russa”. 

Lunedì 17 febbraio andrà in onda su La7 alle 21.15 “Navalny, cronaca di un omicidio di stato”, un film documentario di Ezio Mauro, prodotto da Stand By Me. 
 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)