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Mister X e mister Xi

Giulia Pompili

Circola molto sui social cinesi l’immagine di Elon Musk nei panni di Nezha, un dio ribelle ritratto dai film d’animazione cinesi: dai legami di famiglia alla geopolitica, l'imprenditore tech è sempre più vicino a Pechino. Ma da risorsa a rischio il passo è breve

"Ma quale politica! Per capire il rapporto fra Elon Musk e la Cina devi osservare la madre Maye”. Così esordisce, quasi ridendo, una fonte del Foglio che si occupa di relazioni fra Washington e Pechino. “Scherzo, ma non troppo”. Come spesso succede negli ultimi anni quando si parla di affari globali, prima dei bilanci, delle relazioni di business, dei fatturati, della politica e della volontà di potenza, si finisce a parlare di analisi psicologiche, background familiari, obiettivi personalissimi. Un anno fa, chiudendo la sfilata a New York della stilista cinese Taoray Wang, la settantacinquenne Maye Musk ha detto ai giornalisti: “Sapete che amo lavorare con i cinesi. Vado in Cina quasi ogni mese. L’anno scorso sono stata in dodici diverse città cinesi per tenere discorsi e per fare da modella, anche nel settore della skin care”, e allora qualcuno le ha domandato se avesse dei problemi a farlo, vista la situazione tesa delle relazioni fra Washington e Pechino, ma Maye ha risposto candidamente: “Ma no!, quando vado in Cina tutti sono felici, amichevoli e divertenti. Anche i miei amici qui, adesso vogliono tutti visitare la Cina”. La madre dell’uomo più ricco del mondo nella Repubblica popolare cinese è una superstar, ha centinaia di migliaia di follower sui social network cinesi, da Douyin a Weibo, ed è spesso considerata “l’arma segreta di Musk in Cina” perché Maye parla sempre, e sempre bene, di due cose: di suo figlio Elon, e del meraviglioso mondo cinese.  

 


Secondo diversi esperti non è chiaro se la popolarità di Maye Musk in Cina sia legata alla sua assidua presenza nel paese, al suo aspetto da “silver influencer” – un’ondata di influencer soprattutto asiatica legata a personaggi più in là con l’età, che si prendono cura di sé stessi e spiegano agli altri come farlo – oppure, semplicemente, alla popolarità di Elon come imprenditore. Di sicuro, Musk ha passato anni a costruire un rapporto indissolubile fra la sua figura, la sua famiglia, le sue aziende e la Repubblica popolare cinese. Ma non c’è solo il business: Musk, che si definisce un “assolutista della libertà di parola”, si è adattato facilmente al sistema autoritario di Pechino e anzi, molte delle sue esternazioni social sull’America, contro “la dittatura woke” e il declino americano, si sovrappongono perfettamente alla grancassa della propaganda cinese (e russa) antiamericana.  E’ anche per questo che la leadership di Pechino, a torto o a ragione, attualmente vede in Musk uno dei suoi principali alleati. Un alleato che ora è considerato il braccio destro del presidente americano Donald Trump, e che ha libero accesso ai database e ai conti dell’intera Amministrazione. Solo poche settimane fa, “la minaccia maggiore per i sistemi informatici del governo degli Stati Uniti sembrava essere quella che potenze straniere ostili potessero penetrarvi e rubare i dati”, hanno scritto sull’ultimo Foreign Affairs James Goldgeier e Elizabeth N. Saunders. Era avvenuto: “Alla fine di dicembre, i funzionari del dipartimento del Tesoro hanno inviato una lettera ai membri del Congresso per segnalare che un gruppo di criminali informatici cinese aveva violato i loro sistemi e rubato documenti non classificati. Ma negli ultimi giorni è emersa una minaccia molto più urgente, di origine locale”: il miliardario imprenditore tecnologico Elon Musk e il suo team di ingegneri del cosiddetto Department of Government Efficiency “hanno rivendicato l’ampio accesso a sistemi vitali che gestiscono informazioni sensibili e classificate presso diverse agenzie governative”. Le attività di Musk nella nuova Casa Bianca sono considerate “un incubo per la sicurezza nazionale”, e anche qui il metodo Musk piace un sacco alla Cina. Sebbene X, l’ex Twitter acquistato da Musk, sia censurato in Cina, è da lì che passa gran parte della propaganda cinese in occidente. E’ solo con SpaceX, l’altro gigantesco asset nel portafoglio di Musk, che l’imprenditore sudafricano e la leadership cinese si trovano in una vaga competizione: la Repubblica popolare cinese tiene molto allo show di forza delle sue imprese spaziali, che oggi, grazie agli investimenti fatti da Pechino, sono spesso considerate superiori di quelle americane ed europee. 
Yingshi Gao, giornalista dell’emittente statale cinese Cgtn e autore di Inside China, mostra al Foglio un’immagine creata con l’intelligenza artificiale. Circola molto sui social cinesi, ci spiega, e rappresenta Elon Musk nei panni di Nezha, un dio ribelle recentemente ritratto da un paio di film d’animazione cinesi. Il capo di Tesla “gode anche di una notevole popolarità su internet in Cina”, ci spiega Gao. “I netizen cinesi amano la figura del nerd tecnologico. Stanno anche prestando grande attenzione al Doge, in parte perché molti non conoscevano il volto ‘corrotto e inefficiente’ del sistema burocratico statunitense rivelato da Musk”. 

 


Poco più di dieci anni fa, subito dopo l’inizio dell’apertura del business nella Repubblica popolare, gli affari di Musk in Cina in realtà andavano piuttosto male. Il suo primo viaggio nel paese è stato nell’aprile del 2014 – da quel momento, ha visitato la Cina praticamente ogni anno. Già durante il suo primo famoso viaggio, durante il quale aveva incontrato a Pechino l’allora ministro della Tecnologia Wan Gang, Musk sembrava ossessionato dalla “efficienza” cinese, dalla velocità della produzione, dal sistema del lavoro cinese con impiegati che lavorano diverse ore al giorno senza mai lamentarsi (una cosa che avrebbe ripetuto più volte, anche di recente), e già allora aveva poco da ridire sul sistema di governance autoritario.  D’altra parte, nell’obiettivo di Pechino c’era lo sviluppo dell’industria dell’auto elettrica, che all’epoca languiva e che oggi invece è diventata un quasi-monopolio. I resoconti giornalistici di una decina di anni fa non erano entusiasti della collaborazione fra Musk e la Cina: fonti di Tesla China dicevano per esempio a Techcrunch che “Musk non capisce il mercato cinese e non sa come gestirlo”, sembrava perso e l’auto americana non riusciva a svilupparsi com’era nei suoi progetti. Poi però, nel giro di quattro anni, qualcosa è successo, e Pechino ha iniziato a stendere tappeti rossi al capo di Tesla. Nel 2018 la Cina era diventata il più grande mercato di veicoli elettrici al mondo, e le case automobilistiche stavano iniziando a investire miliardi nel settore anche grazie a un sospetto aumento dell’82 per cento di vendite ottenuto fra il 2017 e il 2018. Tesla era tornata popolare in Cina, ma assemblava le sue auto in California e le inviava dall’altra parte del mondo, con qualche complicazione sui prezzi finali. Il problema erano i dazi, imposti dallo stesso Trump, e ai quali Pechino aveva risposto – era l’inizio della guerra commerciale fra Washington e Pechino. E’ proprio nel 2018 che Elon Musk annuncia il suo mega investimento a Shanghai, quello che secondo molti analisti cambia le sorti di Tesla, che fino a poco tempo prima era sull’orlo del fallimento. Oggi la metà del business dell’auto elettrica di Musk si produce a Shanghai, con una produzione annua di oltre 950 mila unità. Da qualche giorno è attiva anche la megafabbrica Tesla di batterie, sempre a Shanghai, in uno stabilimento inaugurato a maggio dello scorso anno e che produce Megapack, le batterie di accumulo energetico che servono ai veicoli elettrici. Se la Cina ha steso il tappeto rosso per Musk, salvando di fatto Tesla e permettendogli di essere la prima casa automobilistica straniera a operare senza un partner locale, è grazie ai contatti di altissimo livello che si è costruito Musk all’interno del Partito comunista cinese, ma anche perché la leadership di Pechino, evidentemente, ha puntato su di lui. Musk è l’unico imprenditore non cinese ad aver ottenuto oltre mezzo miliardo di dollari in prestiti da banche statali e uno sconto fiscale del 10 per cento fino al 2023: “Non è una coincidenza che la Cina sia anche il più grande mercato di Tesla, e che anzi per l’azienda sia diventata perfino più importante negli ultimi tempi. Mentre l’anno scorso le vendite sono diminuite in Europa e negli Stati Uniti”, ha scritto qualche giorno fa il direttore dell’American Prospect Ryan Cooper, “e sembra che stiano diminuendo più rapidamente da quando è stato eletto Trump – il che è sicuramente in parte dovuto alle buffonate naziste di Musk – Tesla ha venduto 657.000 auto in Cina nel 2024, con un aumento di circa il 9 per cento”. L’imprenditore a capo del Doge “ha chiaramente goduto di un buon rapporto con la Cina nel corso degli anni”, conferma al Foglio Yingshi Gao. “E’ stato sotto l’amministrazione di Li Qiang”, che dal 2023 è il premier cinese e nei precedenti cinque anni è stato segretario del Partito comunista di Shanghai, “che ha potuto raggiungere un accordo con Tesla e costruire una gigafactory nel 2018. Lo scorso aprile, Musk è stato a Pechino per incontrare il premier cinese Li. Poco dopo l’incontro con Li, l’organo di supervisione della sicurezza dei dati ha dato a Tesla il via libera e ha eliminato le precedenti restrizioni sul parcheggio di Tesla vicino alle agenzie governative, agli aeroporti e ad alcune autostrade”, dice Gao.

 


Questa relazione diretta con la leadership di Pechino Musk non l’ha mai nascosta, così come le sue idee di politica estera. In un’intervista con il Financial Times del 2022, ha detto che la Cina “ha espresso chiaramente la sua disapprovazione per il recente lancio di Starlink, il sistema di comunicazione satellitare di SpaceX, in Ucraina per aiutare i militari a eludere l’interruzione di internet da parte della Russia. Secondo Musk, Pechino avrebbe chiesto garanzie sul fatto che non avrebbe venduto Starlink in Cina”. Nella stessa intervista, il milionario diceva che il suo suggerimento per Taipei era di accettare di negoziare con Pechino “una zona amministrativa speciale che sia ragionevolmente appetibile”, magari “meglio di quella di Hong Kong”. L’anno scorso, quando il Wall Street Journal ha pubblicato la notizia delle conversazioni private fra Musk e Vladimir Putin, è venuta fuori anche la richiesta del presidente della Federazione russa  “di evitare di attivare il suo Starlink su Taiwan per fare un favore al leader cinese Xi”. E c’è forse un motivo più politico che economico nell’apertura, tre anni fa, di uno showroom di Tesla a Urumqi, capitale della regione dello Xinjiang dove da anni la leadership cinese è accusata di imprigionare milioni di uiguri. Pechino sta cercando di trasformare lo Xinjiang in una meta turistica e di business, per lavare via l’immagine del “lager a cielo aperto”.
Però in molti, più di recente, si sono domandati se queste richieste da parte di Pechino, nel tentativo di salvare Tesla sempre più legata alla Cina, porteranno mai a una concreta influenza sulla politica estera americana. Se Musk sarà una specie di sussurratore nell’orecchio di Trump, capace di attenuare i toni di una potenziale guerra commerciale 2.0, forse più scellerata di quella precedente, o se si tratti di qualcosa di più serio: un vero agente d’influenza che preferisce favorire il paese che l’ha protetto e l’ha reso ricco invece della sicurezza nazionale americana. Dal punto di vista cinese, naturalmente, la tendenza è quella a minimizzare. “Per quanto riguarda il ruolo di Musk nelle relazioni tra Cina e Stati Uniti, ha dedicato la maggior parte delle sue energie e della sua attenzione alle questioni interne. Per quanto ho potuto osservare, la parte cinese ha etichettato Musk più come un uomo d’affari che come un politico”, dice al Foglio Gao. E in effetti subito dopo la cerimonia d’insediamento di Trump, Musk ha incontrato il vicepresidente cinese Han Zheng – nel cerimoniale cinese, quell’incontro è stata inserito sotto l’etichetta di “meeting di Han con la comunità imprenditoriale statunitense”.  “Musk ha il potenziale per incrementare le relazioni bilaterali”, dice Gao, “ma per ora non ho visto molto della sua azione”. Eppure siamo ben lontani, per il momento, dai “dazi al 60 per cento” minacciati da Trump contro la Cina durante la sua campagna elettorale. 

 


Nel frattempo, Elon ha già diversi problemi di trasparenza nel suo lavoro. Grazie al suo ruolo di capo del Doge, di donatore di Donald Trump, e grazie a SpaceX, negli anni Musk ha stretto profondi legami “con le agenzie militari e di intelligence degli Stati Uniti, che gli hanno dato una visibilità unica su alcuni dei programmi spaziali più sensibili d’America”, ha scritto il Wall Street Journal. “SpaceX, che gestisce il servizio Starlink, ha vinto un contratto riservato da 1,8 miliardi di dollari nel 2021 ed è il principale lanciatore di razzi per il Pentagono e la Nasa. Musk ha un’autorizzazione di sicurezza che gli consente di accedere a determinate informazioni riservate”. Allo stesso tempo, Musk è molto vicino alla leadership cinese: tra tutti quelli che in questi giorni si stanno domandando se l’imprenditore non sia un “conflitto d’interesse ambulante”, c’è Isaac Stone Fish, analista esperto di Cina e fondatore di Strategy Risks, che ha scritto: “Possiamo parlare degli stretti legami di Elon Musk con la Cina? Sono sbalordito dal fatto che la copertura mediatica di Musk e Trump trascuri quasi interamente il rapporto di Musk con il Partito comunista e come Tesla – la fonte della maggior parte della ricchezza di Musk – sia fortemente dipendente dalla Cina. Strategy Risks classifica Tesla al quarto posto nella nostra lista delle 250 principali società statunitensi con maggiore esposizione alla Cina, appena sotto Apple”. 

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.