In Germania

Un'anomalia felice e il rilancio dell'Europa. Perché i trumpiani non tifano per Friedrich Merz

Paola Peduzzi

La Germania di cui non possiamo fare a meno e la vita da separati in casa con l'America. Intervista a Giovanni di Lorenzo, direttore della Zeit, e a Jeremy Cliffe, direttore editoriale dell'European Council on Foreign Relations

La Germania resterà, dopo le elezioni del 23 febbraio, “un’anomalia se paragonata ad altri paesi – dice al Foglio Giovanni di Lorenzo, direttore italotedesco della Zeit da più di vent’anni  – Perché sceglierà tra due o tre partiti democratici e moderati per formare il proprio governo, e non mi sembra una cosa molto comune di questi tempi”. Questa felice anomalia è confermata dai sondaggi, da quel che dice il favorito a diventare cancelliere, il leader cristianodemocratico Friedrich Merz, e  dall’accanimento dei trumpiani, che evidentemente non hanno a cuore la stabilità europea e che quindi fanno il tifo non per un partito conservatore tradizionale (che è pure dato per vincitore), ma per l’estrema destra dell’Alternative für Deutschland (AfD), un partito antieuropeo, filorusso con tratti accesi di xenofobia e antisemitismo. E questa felice anomalia potrebbe essere cruciale ora che i due alleati storici, l’America e l’Europa, si ritrovano separati in casa – e in casa, cioè in Ucraina, c’è una guerra scatenata tre anni fa dalla Russia.

A Monaco, il vicepresidente americano J. D. Vance ha reso palese questa crisi accusando i leader europei di essere più pericolosi dei russi invasori a causa della loro furia liberticida e incontrando la candidata cancelliera dell’AfD, Alice Weidel, regina di una campagna di legittimazione iniziata con una diretta su X voluta dal demiurgo  Elon Musk e cementata da una visita a Budapest, dove il premier ungherese Viktor Orbán, che soltanto qualche mese fa non aveva voluto fare alleanze con lei, l’ha celebrata come una vera patriota. E’ appena il caso di ricordare che lo sgretolamento dell’Europa è una delle priorità di Vladimir Putin, ma anche restando tra i panni sporchi occidentali, risulta chiaro che una Germania europeista, allineata con la Francia e filoucraina è un antidoto forte all’istinto destabilizzatore dell’America di Donald Trump.

Friedrich Merz, che è al 30 per cento nei sondaggi davanti a tutti gli altri (l’AfD è al 20, i socialdemocratici dell’Spd al 16, i Verdi al 13 per cento), ha criticato l’ostilità del presidente americano nei confronti della Nato e dell’Europa, ha escluso – ancora una volta durante il dibattito televisivo con gli altri tre candidati alla cancelleria dei principali partiti, domenica sera – qualsiasi accordo di governo con l’estrema destra, nonostante l’esortazione, diciamo così, di Vance, e ha confermato la volontà di voler costruire un’Europa forte, in grado di difendere l’Ucraina e sé stessa. Merz, un conservatore tedesco tradizionale, a lungo poco popolare persino nel suo stesso partito, in conflitto con la svolta centrista e pro immigrazione impressa dall’ex cancelliera Angela Merkel (con cui è da sempre in conflitto anche a livello personale), è atlantista, europeista, filofrancese e riformatore – ed è un raro leader di destra nel continente che non ha cercato di accreditarsi presso la corte trumpiana. Jeremy Cliffe, direttore editoriale dell’European Council on Foreign Relations, coautore di un podcast che s’intitola “Searching for Deutschland”, dice al Foglio che in questa sua ricerca di una Germania che reinventi la propria leadership in Europa, lo scenario più ottimistico, pure se un po’ stropicciato, passa proprio per Friedrich Merz. 

“Ci siamo messi a cercare dove fosse finita la Germania – dice Cliffe, che vive a Berlino – perché sempre più spesso ci è capitato di sentire nelle capitali europee e a Bruxelles che questo paese non stesse più esercitando un ruolo di leadership in Europa, che si fosse ripiegato su sé stesso, che avesse bloccato il motore franco-tedesco, complice anche l’instabilità di Emmanuel Macron a Parigi, che si fosse insomma esaurito il paradigma degli anni Novanta, secondo cui l’interesse europeo coincideva spesso con l’interesse tedesco”. Alcuni paesi o partiti dell’Unione europea vivono con sollievo questa introversione, ma spesso sono miopi: senza Germania l’Europa non sta meglio. Con una Germania in recessione da due anni, desiderosa e allo stesso tempo spaventata dal cambiamento, “con un umore nero”, come dice Di Lorenzo, ancora meno. Semmai ci si dovrebbe interrogare su che tipo di Germania sia più funzionale al progetto europeo, e anche Cliffe parte dal principio, cioè dal fatto che, con tutta probabilità, si formerà una coalizione di governo europeista e democratica – la felice anomalia. “Merz può rinnovare l’europeismo tedesco – continua Cliffe – La sua carriera, poi accidentata, tanto che per quasi un decennio ha smesso di fare politica, è cominciata come europarlamentare, nel 1989, ed è stata legatissima a Wolfgang Schäuble, che oggi tutti ricordano come il lupo cattivo della crisi dell’Eurozona, ma che è stato un europeista federalista convinto. E Merz dice di voler ristabilire e rafforzare le relazioni con la Francia e con la Polonia, un baricentro europeista molto solido”.

Merz si colloca nella tradizione di politica estera chiamata Westbindung, legame con l’ovest, che ha un piede in Europa e l’altro in America: dal 2009 al 2019, Merz è stato presidente dell’Atlantik-Brücke, il forum transatlantico più influente della Germania, si è opposto alla costruzione del gasdotto della discordia massima, il Nord Stream 2, e ha criticato l’eccessiva cautela dell’attuale cancelliere socialdemocratico, Olaf Scholz, nel sostenere Kyiv (al dibattito di domenica sera, Merz ha detto ad Alice Weidel che una delle ragioni principali per cui non potrà mai fare un accordo con l’AfD è proprio la difesa dell’Ucraina e la difesa europea dall’aggressività russa. Vi impediremo di inviare i Taurus, ha risposto lei, vedremo, ha ribattuto lui). Ora l’Amministrazione Trump fa traballare il pilastro americano, ma il candidato della Cdu dice di essere pronto, che ha sempre pensato che  Trump avrebbe vinto le elezioni, e che quest’America è tanto diversa da quella che conoscevamo e amavamo, ma bisognerà trovare un modo per trattarci. Anche la sua reazione agli strattoni di J. D.  Vance è stata tra le più pacate, e sì che lo sgarbo di fare il tifo per l’AfD è quasi più rivolto a lui che al governo socialdemocratico: non ci faremo dire da un vicepresidente americano con chi fare le nostre coalizioni, ha detto Merz, ed è passato a parlare della necessità di unirsi per davvero in Europa e naturalmente del fatto che lui è il più titolato a farlo.    

Giovanni di Lorenzo, che è convinto che “la Germania resterà sempre un paese guida e costruttivo dentro l’Europa”, aggiunge un altro pezzetto alla figura politica di Merz, in un continente che deve trovare unità e autonomia assieme, e che si trova di fronte a un’America che punta alla competizione con gli europei, compromettendo l’alleanza. Tasse e semplificazione sono ancora il cuore dell’offerta politica della Cdu di Merz, che “propone un taglio delle tasse e l’alleggerimento della burocrazia, che è diventata mostruosa – dice il direttore della Zeit – E’ un elemento spesso sottovalutato, questo, ma noi abbiamo fatto molte inchieste sui costi della burocrazia e posso dire che chi si lamenta ha ragione: pure noi che stampiamo un giornale abbiamo un reparto intero che si occupa soltanto di stare dietro alla burocrazia legata al legno e alla carta. Uno che vuole fare qualcosa di nuovo, un’azienda per dire, a questo punto la fonda in un altro paese, non in Germania”. La teoria dell’efficienza ci riporta di nuovo oltreoceano, a Elon Musk, che brandisce la sburocratizzazione come un’arma ideologica fatta di tagli di personale e fondi, ma Di Lorenzo precisa che il processo di efficienza, se sarà Merz il cancelliere, non sarà come quello muskiano “nel quale non si capisce che cosa si distrugge e che cosa si lascia intatto, ma sarà il frutto di un’operazione in accordo con le parti, il procedere giusto in una democrazia”.

C’è un tema su cui il leader della Cdu (ma anche l’attuale governo, per la verità) si è messo di traverso rispetto all’Europa, ed è trumpianissimo: l’immigrazione. Il voto  al Bundestag in cui per la prima volta una mozione promossa dai conservatori è stata approvata con i voti decisivi dell’AfD riguardava l’immigrazione (la legge poi non è passata), ed è stato in quel momento, all’inizio di febbraio, che s’è temuto che la pressione trumpiana stesse contagiando anche Merz, facendo crollare il muro storico che i partiti democratici tedeschi hanno costruito attorno all’estrema destra. Cliffe è molto critico nei confronti del leader della Cdu su questo punto, anzi il suo ottimismo nella possibilità di ritrovare la Germania proprio grazie alla figura di Merz si scurisce quando parliamo dei colpi tedeschi a Schengen: “C’è un che di ‘Germany first’ nel voler mantenere il controllo delle frontiere in chiave antimigranti – dice – e c’è la possibilità che, se Merz dovesse governare, possa scegliere non di essere il Merz europeo ma il Merz tedesco, cosicché il suo istinto a rinsaldare l’unità europea si spezzerebbe davanti a un unilateralismo nazionalista”. Di Lorenzo, che da molti anni sostiene che la mancata solidarietà degli altri paesi europei nei confronti della Germania, “che ha accolto profughi come nessun altro europeo”, è un problema di disparità che va assolutamente aggiustato, dice anche che le azioni unilaterali “non prestano un gran servizio all’idea dell’Europa unita di cui, proprio per far fronte a Trump, avremmo tanto bisogno”.  

Il futuro della Germania è pieno di ombre, anche se, come per l’Europa, questa forse è l’ultima occasione per riuscire a fare ciò che è necessario per non essere travolti dall’AfD o dal trumpismo: nel 2029, al prossimo turno elettorale tedesco, la felice anomalia potrebbe non esserci più. “Merz potrebbe essere la persona giusta – dice Cliffe – per convincere il centro cauto della politica tedesca a fare grandi balzi europeisti, che si tratti del budget, della difesa dell’Ucraina, dell’allargamento o dell’Agenda Draghi”. E Di Lorenzo fa suo lo slogan elettorale dei Verdi, “Zuversicht”, che vuol dire fiducia, ottimismo ma anche rifugio, ricorda che nessun paese europeo ce la può fare da solo, ma senza la Germania nemmeno l’Europa può farcela, ancora meno ora che non ci si può sentire offesi dalle umiliazioni della nuova America, bisogna rispondere facendosi più grandi e più solidi e più uniti: “Bisogna andare avanti, nel peggiore dei casi anche senza l’America”.

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi