L'asse di Trump con Putin offre un via libera alla Cina pure nel Mar cinese meridionale

Giulia Pompili

Un episodio di due giorni fa tra un elicottero della Marina cinese e un Cessna filippino spiega molto bene la finestra d'opportunità che sta cogliendo Pechino nelle sue mire espansionistiche

L’attacco del presidente americano Donald Trump contro il suo omologo ucraino Volodymyr Zelensky, l’accordo con il presidente della Federazione russa Vladimir Putin e il cambio “radicale della direzione della politica estera degli Stati Uniti in quattro brevi settimane” (l’ha scritto il Wall Street Journal) rappresentano un gigantesco semaforo verde per le ambizioni espansionistiche della Repubblica popolare cinese. Per le Filippine, che da due anni e mezzo – da quando cioè è entrato in carica il presidente Ferdinand Marcos Jr. – resistono alla guerra ibrida lanciata da Pechino contro il paese per conquistare pressoché l’intero Mar cinese meridionale, un’America debole nei confronti della Cina significa soccombere.

 

 

Il rischio di una guerra per il controllo del Mar cinese meridionale, che da quindici anni circa Pechino illegittimamente rivendica come parte del suo territorio, aumenta periodicamente. Ma non a caso, secondo molti osservatori, nelle ultime settimane la Cina ha di nuovo aumentato le pressioni contro le Filippine attorno alle Isole Spratly e nelle acque adiacenti alla secca di Scarborough, i due luoghi in cui si concentra maggiormente la rivendicazione di Pechino. Martedì scorso un elicottero della Marina cinese, nel tentativo di far uscire un aereo di pattuglia filippino da quello che ormai la Cina considera parte del suo spazio aereo, si è avvicinato a meno di tre metri dal Cessna Caravan filippino. Una manovra particolarmente azzardata e pericolosa,  che rende l’idea del metodo ormai sfacciatamente aggressivo di Pechino che sta cercando da anni di stressare la determinazione di Manila, fino all’incidente più serio o alla resa. Il governo filippino guidato da Marcos invita spesso giornalisti internazionali nelle operazioni di pattugliamento, e anche l’altro giorno c’erano diversi reporter sul Cessna, che hanno “assistito a circa trenta minuti di tensione”, come ha scritto Joeal Calupitan dell’Associated Press, “mentre l’aereo filippino proseguiva il suo pattugliamento a bassa quota intorno a Scarborough, e con l’elicottero della marina cinese che gli volteggiava vicino sopra o volava alla sua sinistra, in condizioni di cielo nuvoloso”, violando tutte le regole e le convenzioni internazionali di volo – oltre che il buonsenso. Il governo filippino ha protestato formalmente contro le manovre pericolose della Marina cinese, mentre l’Esercito popolare di liberazione, in una nota, ha fatto sapere che l’elicottero ha “espulso” l’aereo filippino dallo “spazio aereo territoriale cinese”, e che Manila “ha seriamente violato la sovranità della Cina”.

 

 

Soltanto il giorno dopo, Tammy Bruce, portavoce del dipartimento di stato americano guidato da Marco Rubio, ha detto che “gli Stati Uniti sono al fianco dell’alleato Filippine”, ha condannato le manovre pericolose cinesi – ricordando anche quella dell’11 febbraio scorso, “che ha messo in pericolo un aereo australiano che stava conducendo un pattugliamento marittimo di routine nel Mar cinese meridionale” – e poi ha chiesto a Pechino di “risolvere pacificamente le sue dispute in conformità con il diritto internazionale”. Per Manila il sostegno americano è fondamentale, perché da Washington dipende la Difesa filippina. Ed è anche per questo che l’altro ieri Enrique Manalo, segretario per gli Affari esteri delle Filippine, ha rilasciato un’intervista al Financial Times dicendo, e forse sperando, che le relazioni tra Filippine e Stati Uniti “non solo continueranno da dove ci siamo fermati nella precedente Amministrazione, ma credo che migliorerà ulteriormente la nostra cooperazione”. Non è per niente scontato. Il presidente americano Trump, parlando ieri ai giornalisti sull’Air Force One, ha detto di aspettarsi una visita del leader cinese Xi a Washington, e poi è tornato a elogiare il loro “grande” rapporto: “Lui ama la Cina e io amo gli Stati Uniti. Quindi, sapete, c’è un po’ di competizione. Ma il rapporto che ho con il presidente Xi è, direi, ottimo”. 

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.