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Contro di noi
Ma quale battaglia culturale, i trumpiani promuovono campagne filorusse, anti Europa e anti Nato
Dalla Romania alla Germania, dalla Gran Bretagna all’Ucraina: le campagne di disinformazione e le alleanze discutibili dietro il piano anti-europeo della nuova Amministrazione americana. E chi ostacola il presidente diventa un bersaglio
Il presidente americano, Donald Trump, ha detto che Volodymyr Zelensky, presidente ucraino, è “un dittatore” (di Vladimir Putin, il presidente russo al potere da più di vent’anni, confermato in elezioni in cui o c’erano i brogli o non c’erano rivali credibili o entrambe le cose, non lo ha mai detto) e subito è scattato il coro di Elon Musk e della sua falange su X che insistono affinché nell’Ucraina in guerra si tengano le elezioni e che alludono al fatto che Zelensky abbia sperperato i soldi americani dati per la sua difesa. L’Amministrazione Trump è al governo da soltanto un mese, ma questa character assassination è attiva da ben prima e si rivolge in particolare ai leader europei: Musk come il vicepresidente J. D. Vance l’hanno costruita come una lotta all’Europa illiberale che uccide il dissenso, ma questa cosiddetta battaglia culturale in realtà serve per mascherarne un’altra, che ha a che fare con la Russia, la Nato, la sopravvivenza dell’Ucraina e dell’Europa.
Nel suo sermone alla Conferenza di Monaco, Vance ha citato spesso la Romania come esempio della incapacità europea di accettare i voti che vanno contro il cosiddetto establishment. In Romania si è votato per le presidenziali alla fine del novembre scorso, al primo turno è arrivato primo, con il 22 per cento dei consensi, Calin Georgescu, semisconosciuto nazionalista, complottista, autarchico e filorusso che nei sondaggi era all’8 per cento. Accademici e giornalisti hanno presentato alla Corte costituzionale delle prove di una campagna su TikTok finanziata da “influencer” legati alla Russia, alla Cina e alla criminalità, e la Corte, con una decisione inaudita, ha annullato le elezioni, che si terranno di nuovo il 4 maggio. Nel frattempo, tre partiti di estrema destra in Parlamento hanno aperto una procedura di impeachment contro il presidente in carica, Klaus Iohannis, che infine si è dimesso anche perché era diventato molto impopolare: molti romeni non avevano affatto apprezzato l’annullamento del loro voto. Il vicepresidente Vance ha detto che le prove contro Georgescu erano “deboli” (forse non ha letto la documentazione presentata alla Corte), che “i vicini continentali” hanno fatto “enormi pressioni” e che, se poche migliaia di dollari di un paese straniero possono stravolgere un’elezione, vuol dire che “la democrazia in Romania non era così solida”.
Dopo l’intervento di Vance si è riacceso il dibattito, che c’era stato incredibilmente anche nell’illiberale Europa, sulla decisione della Corte romena, ma la ragione per cui il vicepresidente si è accanito sulla democrazia romena è un’altra, ha a che fare con la Nato e con la Russia. La Romania sostiene l’Ucraina, fa transitare sul suo territorio le armi occidentali per la sua difesa e riceve e distribuisce i prodotti agricoli ucraini, addestra piloti ucraini, ha superato l’obiettivo di spesa nella Difesa del 2 per cento del pil, ha il secondo più grande esercito sul fianco orientale con 75 mila soldati, ospita un raggruppamento tattico avanzato guidato dalla Francia, una base aerea che deve essere ampliata per ospitare F-35 e diecimila soldati della Nato, e s’affaccia sul Mar Nero, su cui la Russia vuole il dominio. Georgescu, il candidato venuto dal nulla che crede che ci siano minuscoli chip nelle bevande gassate, è filorusso, dice che di Putin apprezza non solo la strategia ma anche il metodo (cioè le bombe, le torture, le deportazioni), è chiaro dove porterebbe la Romania se dovesse diventarne presidente. In sintesi: Vance s’improvvisa costituzionalista romeno, ma promuove un piano anti Nato e anti Europa. (Un altro dettaglio romeno: i trumpiani continuano a chiedere che sia restituito il passaporto a due fratelli, Andrew e Tristan Tate, che sono accusati di violenza sessuale e traffico di esseri umani. L’Amministrazione Trump non ha finora fatto nessun appello per la liberazione di prigionieri politici da nessuna parte, non certo in Russia o in Cina).
Anche le altre campagne di ingerenza trumpiana contro gli europei hanno lo stesso scopo (quella contro Zelensky non c’è nemmeno bisogno di spiegarla). Il caso tedesco è esemplare: Musk e Vance fanno il tifo per l’AfD, l’estrema destra filorussa e anti Nato, quando ci sarebbe il leader di un partito conservatore tradizionale, Friedrich Merz, peraltro dato per vincitore, cosa non secondaria per chi ha, come loro, l’avversione per i perdenti, che vuole governare l’immigrazione (Merz ha persino definito i rifugiati ucraini “turisti sociali”: nella civile Germania, ha dovuto scusarsi e spiegarsi, ma per i trumpiani dovrebbe essere un punto a suo favore), che è contrario alla transizione ecologica, che denuncia le derive woke, che vuole tagliare le tasse e sburocratizzare il paese. Non è perfetto? No, perché Merz ha un’idea ambiziosa dell’Europa, della Nato e della difesa dell’Ucraina, quindi deve essere il più possibile sminuito, destabilizzato, contenuto.
La stessa cosa si può dire del Regno Unito. Al governo c’è Keir Starmer, un laburista, quindi per sua natura nemico dei trumpiani: se la storia finisse qui, si potrebbe inquadrare in una dinamica destra-sinistra naturale, pure se la prepotenza gioca sempre un ruolo preponderante, quindi Starmer non può essere soltanto uno che fa male il suo lavoro, no, deve essere dipinto come un pedofilo. In ogni caso, la storia non finisce qui, perché pure nel Regno Unito, come in Germania, c’è un partito conservatore tradizionale che vuole combattere l’immigrazione, che fa costanti battaglie anti woke e che è anche contrario al riavvicinamento del Regno Unito all’Ue pur avendo determinato sia la vittoria al referendum della Brexit sia poi il suo fallimento quando la fantasia isolazionista si è schiantata contro la realtà. A guidare questo Partito conservatore poi c’è ora Kemi Badenoch, una giovane donna di colore, che è stata eletta leader a novembre, il giorno prima che l’altra donna di colore sotto i riflettori, Kamala Harris, fosse battuta sonoramente dai trumpiani. Non sarebbe quindi perfetta come alleata? No, perché, di nuovo, Badenoch e i Tory sono a favore dell’Ucraina e a favore della Nato e ambiscono a un ruolo di leadership nella difesa dei valori occidentali.
Per questo i trumpiani hanno sempre preferito Nigel Farage, il brexitaro che non vuole sperperare troppe sterline per gli ucraini e che se potesse smontare l’Europa con le sue mani lo farebbe. Ma negli scorsi mesi neppure Farage è sembrato abbastanza, ogni tanto qualche parola negativa sull’aggressione terroristica di Putin all’Ucraina gli scappa, e così i favori di Musk sono caduti su Tommy Robinson, sul quale si possono dire molte cose, ma che in sintesi è orgogliosamente fascista (ha cercato persino di importare nel Regno Unito il partito neonazista tedesco Pegida) ed è stato condannato più volte, con pene carcerarie, per truffa e violenza (ha ricevuto anche una condanna, nel 2013, per essere entrato illegalmente negli Stati Uniti con il passaporto di un amico: ci pensate? Un immigrato illegale è il pupillo dei trumpiani).
Da ultimo non si capisce bene se Farage sia tornato un po’ nei cuori trumpiani: lui ci spera, anche perché gli avevano promesso molti soldi, e in questi giorni è in America alla Cpac, la conferenza dei trumpiani, a caccia di una riabilitazione. Considerando l’approccio transazionale di Trump, c’è da chiedersi che cosa gli chiederà in cambio, ma in ogni caso Farage è già parecchio funzionale alla campagna per destabilizzare l’Europa.