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Il fedelissimo

Quando Rubio diceva che Putin era una minaccia per tutti

Marco Bardazzi

Dall’eccezionalismo americano e le posizioni moderate sull'immigrazione, fino all’appiattimento su Trump e agli elogi verso la controparte russa. La metamorfosi del segretario di stato americano

Chi lo conosce bene fatica a riconoscere nel Marco Rubio che elogia i russi il “falco” che da una quindicina d’anni si muove sulla scena nazionale della politica americana. Ci si interroga, a Washington e nelle capitali di mezzo mondo, sulla metamorfosi del segretario di stato che a Riad, al tavolo delle discussioni sul futuro dell’Ucraina (senza gli ucraini), elogia la controparte russa, Sergei Lavrov, ed elenca le “incredibili opportunità che si aprono” se si trova un accordo con Vladimir Putin. Ma non è quello stesso Rubio che nel 2016, dopo essere stato il più feroce avversario di Donald Trump in campagna elettorale, gli fece anche il dispetto di prendere le distanze per schierarsi al fianco dell’allora presidente Barack Obama contro la Russia? 

 

            

 

Era fine dicembre, mancava meno di un mese all’ingresso di Trump alla Casa Bianca e Obama aveva appena varato una raffica di sanzioni contro Putin, irritando il presidente eletto. I repubblicani si accodarono alla rabbia del loro nuovo leader, ma non Rubio. “La Russia di Putin è una minaccia alla stabilità globale – scrisse in una dichiarazione a sostegno delle sanzioni di Obama – come dimostrano la repressione del popolo russo, gli assassinii dei suoi critici, la sua pericolosa invasione dell’Ucraina con l’occupazione della Crimea, le sue minacce contro agli alleati della Nato nell’Europa orientale, e i crimini di guerra commessi dalle forze russe e dai loro alleati siriani e iraniani ad Aleppo”. 

Nel decennio trascorso dalla discesa in politica di Trump (discesa nel vero senso della parola, sulla scala mobile della Trump Tower a New York), quasi tutto il Partito repubblicano si è allineato al capo e Rubio non fa  eccezione. Anche J. D. Vance nel 2016 insultava Trump e ora è il suo vice. Da segretario di stato, inoltre, è corretto e scontato che Rubio si faccia promotore ed esecutore della linea di politica estera decisa dal presidente. Lo ha fatto anche Hillary Clinton, tra gli altri, quando da avversaria di Obama è diventata la responsabile della sua diplomazia mondiale. Ma Marco Rubio era percepito a livello internazionale come una possibile voce di continuità con l’establishment, rispetto alle posizioni radicali del resto dell’Amministrazione Trump. Un interlocutore che sembrava offrire garanzie di stabilità per le alleanze globali degli Stati Uniti. E’ un ruolo che invece per ora non sta emergendo, mentre il segretario di stato gira il mondo promuovendo con apparente entusiasmo la linea politica di un ex avversario con cui ha avuto scontri memorabili. In un momento in cui emerge il neoisolazionismo americano e domina la dottrina America first, con l’abbandono anche del soft power rappresentato dalle iniziative di UsAid nel mondo, Marco Rubio sembra perfettamente allineato agli input della Casa Bianca

Una posizione in contrasto con quelle prese nei quattordici anni passati nella commissione Affari esteri del Senato, dove è emerso non solo come “falco” nei confronti della Cina (che da anni ha disposto sanzioni contro di lui e finora gli vietava l’ingresso nel paese), ma anche come forte sostenitore di una politica americana che un tempo si sarebbe definita neocon. Rubio è stato a favore dell’invasione dell’Iraq del 2003 e dell’intervento in Libia, era contrario a qualsiasi accordo con l’Iran, ipotizzando invece soluzioni militari, e spingeva per un intervento degli Stati Uniti in Siria, oltre a promuovere la contrapposizione chiara e forte con Mosca. 

Anche sull’immigrazione, che è un tema di cui dovrà occuparsi molto come segretario di stato, non si riconosce il Marco Antonio Rubio figlio di immigrati cubani, nato cinquantaquattro anni fa e cresciuto nella West Miami dove si parlava spagnolo. Il ragazzo che aveva come mito Ronald Reagan e la sua apertura agli immigrati di tutto il mondo. Il giovane politico a cui mamma Oriales lasciava sempre messaggi sulla segreteria telefonica, quando cominciava a muoversi a Washington: “Tony, un consiglio dalla persona che ti vuole più bene al mondo: non combinare guai sugli immigrati. Ricordati che los pobrecitos sono esseri umani come noi e sono venuti qui per la stessa ragione nostra. Non dimenticarti di loro”. Rubio non li ha dimenticati, ma oggi deve sostenere la linea politica dura delle deportazioni di chi non ha documenti per stare in America

La metamorfosi di Rubio era cominciata già nel primo mandato di Trump e, quando il senatore della Florida ha capito che The Donald poteva riconquistare la Casa Bianca, si è fatto trovare pronto tra i fedelissimi. Che Trump si fidi ormai pienamente di lui lo dimostra il fatto che fino all’ultimo istante prima dell’apertura della convention dello scorso luglio Rubio è rimasto in corsa con Vance per il posto di vicepresidente. Alla fine, come premio di consolazione, ha avuto il dipartimento di stato. 

Sembrano di un’altra èra geologica quei dibattiti nella campagna elettorale del 2016 in cui Rubio era stato il più tenace e virulento avversario di Trump per la nomination. Si odiavano e si attaccavano nei dibattiti, senza esclusione di colpi. Rubio arrivò a irridere le “mani piccole” di Trump, ipotizzando che avesse piccole anche altre parti del corpo di cui l’avversario invece si vantava. L’allora tycoon degli immobili gli rispondeva in diretta tv chiamandolo “piccoletto” e per lungo tempo gli ha attaccato addosso l’etichetta “Little Marco”, denigrando ogni sua posizione politica. 

Rubio all’epoca sembrava incarnare il futuro dei repubblicani, il leader ispanico a cui affidare un partito che era allo sbando dopo la fine dell’epoca di George W. Bush e le due vittorie di Obama alle presidenziali contro John McCain e Mitt Romney. Era un conservatore puro, convinto dell’eccezionalità americana e della necessità di un ruolo dell’America sui luoghi di crisi del mondo, moderato sull’immigrazione e tradizionalista sui valori e nelle battaglie culturali. Si batteva contro gente come Ted Cruz e Jeb Bush per conquistare il partito. Nessuno di loro nel 2016 aveva visto arrivare il ciclone Trump, che prima li ha spazzati via e ha piegato le loro velleità politiche, e poi ha costretto Rubio e Cruz (un po’ meno Bush) a mettersi al suo servizio. Per diffondere nel mondo il verbo dell’America first.