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il leader ucraino

La resistenza con i nervi saldi di Zelensky che ora si trova davanti all'estorsione trumpiana

Paola Peduzzi

L'Ucraina entra nel suo quarto anno di guerra e il suo presidente ha forse perso il sorriso e l’umorismo, ma non la determinazione di salvare il suo paese e l’Europa dalla sottomissione

L’Ucraina entra nel quarto anno di guerra e Volodymyr Zelensky, il suo presidente, si ritrova come il primo giorno, il 24 febbraio del 2022, quando Vladimir Putin invase il paese: di fronte a una forza soverchiante, oppone la sua limpida resistenza, fatta di presenza, di responsabilità e di coraggio. E’ dimagrito, è invecchiato, ha gli occhi cerchiati, veste di nero, scherza sempre meno, ma di fronte a quella che Franklin Foer sull’Atlantic definisce “un’estorsione”, cioè il dialogo aperto da Donald Trump con Putin da cui gli ucraini sono esclusi, non fa l’offeso – “solo chi è davvero un dittatore si offende se viene definito tale”, ha detto riferendosi all’etichetta sciagurata che gli ha apposto Trump – non si lamenta, non si piega: resiste. 

Foer scrive che l’accordo sulle risorse che il presidente americano sta cercando con il dittatore russo “equivale alle riparazioni utilizzate dopo la Prima guerra mondiale, ma estratte dalla vittima che ha subìto l’aggressione: costringerebbe gli ucraini a cedere le ricchezze sotterranee, senza ricevere in cambio alcuna garanzia di sicurezza”. In un resoconto del Wall Street Journal sull’incontro a Kyiv tra il segretario al Tesoro americano, Scott Bessent, e Zelensky c’è un dettaglio che conferma l’estorsione: Bessent ha passato un pezzo di carta al presidente ucraino con su scritto “devi davvero firmarlo”. L’offerta imperdibile per cui Zelensky dovrebbe essere grato e rapido nell’accettazione è quella secondo cui l’Ucraina dovrebbe dare  agli Stati Uniti il diritto di sfruttare i suoi minerali, che valgono centinaia di miliardi. Il presidente ucraino ha chiesto di pensarci, Bessent – che nell’organigramma dell’Amministrazione Trump è considerato tra i meno brutali – gli ha detto: a Washington si arrabbieranno in molti. Zelensky non ha firmato, si è preso di corrotto, di mendicante, di dittatore, di ingrato, di ladro, ma continua a resistere. Lo fa in quel suo modo attivo, sottile e scaltro, lo stesso che aveva la sera dell’invasione, tre anni fa, quando disse “siamo ancora qui”, e quel qui ripetuto come un ritornello è diventato la prima parola ucraina che ci è rimasta in testa: “tut”. Zelensky ha detto spiazzante: se sono io il problema, sono disposto a levarmi di torno, per una pace giusta sono disposto a tutto, per l’ingresso dell’Ucraina nella Nato anche – “Ucraina first”, insomma, ma senza la presunzione di essere lui il perno dell’interesse nazionale: la linea di demarcazione tra un leader liberale e un dittatore non poteva essere segnata in modo più netto.

In questi giorni di celebrazioni e ricordi, mentre il linguaggio dell’alleato americano si appiattisce su quello dell’aggressore russo (per aiutarci a mantenere i nervi saldi, i decifratori di Trump dicono: quel che dice e quel che fa sono due cose molto diverse), riemergono le foto e i video dell’inizio dell’invasione, quando nessuno – di certo non gli alleati – pensava che l’Ucraina potesse respingere i russi, quando risuonò il “tut” di Zelensky e poi si allargò oltre Kyiv, la capitale che ha resistito, per andare a commemorare i morti di Bucha, Irpin, Chernhiv, Kharkiv, Izyum, Kherson ripercorrendo a ritroso, e liberi, la scia di sangue lasciata dagli occupanti russi: le fosse comuni, le camere di tortura, le persone sparite, i simboli dell’identità ucraina devastati. L’Institute for the Study of War, che analizza quotidianamente il campo di battaglia, ha pubblicato alla vigilia del terzo anniversario di guerra, quando Putin ha lanciato scariche di droni su Odessa e su Kyiv con l’accanimento feroce che ha quando ci sono  appuntamenti che definiscono e definiranno questa sua guerra, un  “fact sheet” molto semplice ed eppure necessario soprattutto in questo picco di disinformazione ideologizzata che stiamo vivendo. Il centro studi britannico scrive: Zelensky non rischia di perdere nell’immediato tutta l’Ucraina, l’80 per cento del paese è libero e sovrano, il ritmo dell’avanzamento delle truppe russe è calato negli ultimi tre mesi e le perdite di soldati sono aumentate; la maggior parte delle città ucraine non è stata distrutta ed è funzionante, le infrastrutture deliberatamente colpite dai russi vengono riparate in tempi relativamente brevi. Poi arriva la parte dei soldi, che è l’unica che interessa agli estorsori: l’Europa fornisce aiuto diretto all’Ucraina pari a quello americano; i prestiti europei sono coperti dalle entrate provenienti dagli asset russi congelati, non dall’Ucraina; l’Ucraina non ha né sperperato né usato in modo inappropriato gli aiuti americani.  

Serve puntualizzare l’ovvio, perché il dibattito sulla difesa ucraina è tornato ai tempi bui in cui i russi dicevano di non aver colpito teatri, ospedali, di non aver fatto esecuzioni di massa e molti gli credevano. Oggi lo fanno anche molti trumpiani (gli americani no: guardate le rilevazioni) che sentono di essere stati derubati dagli ucraini, non dall’aggressione immotivata dei russi. “Anche se probabilmente ha più da perdere da un’Amministrazione Trump di chiunque altro sul pianeta – scrive Foer – Zelensky continua a respingere” gli attacchi di due presidenti illiberali, “con un’intraprendenza che ricorda le tattiche di guerriglia dell’Ucraina subito dopo l’invasione russa”. Ha forse perso il sorriso e l’umorismo, il presidente ucraino, ma non la determinazione di salvare il suo paese e l’Europa dalla sottomissione. Lo fa con la premura che ha avuto due giorni fa mentre rispondeva alle domande dei giornalisti, quando ha rovesciato il bicchiere d’acqua sul tavolino di fianco a dov’era seduto e si è messo a pulire con i tovaglioli di carta, con la naturalezza di chi fa ordine dove c’è il caos, ed è sempre qui, “tut”.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi