
Boualem Sansal (Ansa)
a parigi
Abbandonare Sansal e Charlie. Così la Francia umilia se stessa
Il cinico de Villepin dice che l'Algeria non è una dittatura, la truppa di Mélenchon manifesta per il rilascio dei terroristi ma vota contro la liberazione del romanziere da cento giorni al gabbio. Poi il libro contro il “Charlismo” di Daniel Schneidermann, ex giornalista del Monde. Liberté, ma non per te
Non c’è soltanto l’Algeria che “umilia” la Francia incarcerando per cento giorni uno scrittore fresco di cittadinanza francese e dicendogli di trovarsi un “avvocato non ebreo”. C’è anche la Francia che umilia se stessa. L’ex primo ministro e ministro degli Esteri, Dominique de Villepin, che dai tempi di Saddam Hussein si ritrova spesso a difendere le dittature dalle democrazie, lunedì è andato in tv a dire che l’Algeria del presidente Abdelmadjid Tebboune non è una dittatura. “Se oggi vi dico che si tratta di una dittatura, entro in uno scenario che mi porta, sul piano politico e diplomatico, a un punto morto totale nei rapporti con l’Algeria”. All’insistenza del presentatore Benjamin Duhamel se l’Algeria sia una dittatura, de Villepin risponde: “No, non glielo dico”. “Quindi un paese che rinchiude arbitrariamente uno scrittore ottantenne non è una dittatura?”, replica Duhamel, riferendosi a Boualem Sansal, chiamato “impostore” da Tebboune. De Villepin: “Dobbiamo pensare ai milioni di persone con doppia cittadinanza che vivono in Francia. Si tratta di un problema sia di politica interna che estera”. Mentre si apprende, tramite il suo avvocato, che Sansal, detenuto in Algeria da cento giorni e con un cancro che rischia di ucciderlo prima dell’ergastolo, ha iniziato lo sciopero della fame, la sinistra si mobilita per la liberazione di un certo Georges Ibrahim Abdallah, fondatore delle Fazioni armate rivoluzionarie libanesi detenuto per quarant’anni nelle prigioni francesi per complicità negli omicidi nel 1982 di un addetto militare americano e di un diplomatico israeliano nella banlieue parigina. In un comunicato pubblicato il 20 febbraio su X, il gruppo parlamentare della France insoumise “esprime solidarietà a Georges Ibrahim Abdallah”, concludendo: “Più che mai, la lotta per la sua liberazione continua”. Le famiglie delle vittime lo apprezzeranno. Alcuni deputati di Jean-Luc Mélenchon vanno oltre.
Eric Coquerel, presidente della Commissione finanze dell’Assemblea nazionale, ha fatto visita al terrorista in cella e si è scattato un selfie per Instagram. Anche l’eurodeputata Rima Hassan, a cui Israele ha appena impedito l’ingresso per aver inneggiato a Hamas, non si fa da parte: ha condiviso una foto con il terrorista e due suoi testi. Sansal non è così fortunato (ieri il Pen America è intervenuto in sua difesa). Un terrorista merita più compassione da parte della gauche di uno scrittore. “Difendiamo l’essenza stessa delle democrazie, la libertà di espressione”, recita una mozione approvata dall’Assemble nazionale a sostegno di Sansal. Ma quando si tratta di difendere la libertà di espressione, la sinistra radicale sa come svignarsela. Così la France insoumise e gli ambientalisti hanno votato contro la mozione a sostegno di Sansal. La stessa decisione si era registrata al Parlamento europeo, dove Hassan ha votato contro una risoluzione simile (assieme a otto deputati grillini italiani).
Il problema è il “Charlisme”, neologismo coniato da Daniel Schneidermann, ex giornalista del Monde. Nel libro “Charlisme”, Schneidermann mette da una parte i difensori della libertà di parola verso il fondamentalismo islamico: insomma, gli “islamofobi”. Dall’altro lato, i difensori delle minoranze, i nuovi “dannati della Terra”. Tra i due (Schneidermann si schiera con i secondi), un oceano di incomprensioni.
Ma chi ha tradito chi e cosa è stato tradito? Per Schneidermann la risposta è ovvia: sono i sostenitori del charlismo e di un “occidentalismo dominante”. Se la prende con Philippe Val, ex direttore di Charlie dal 2006 sotto scorta, che fu al centro di un processo intentato dalla moschea di Parigi contro il giornale per la pubblicazione delle caricature del Profeta. E poi la femminista Elisabeth Badinter, l’iraniana Abnousse Shalmani e altre mosche bianche della cultura. “Nelle caricature di Charlie, l’accampamento barbaro è facilmente riconoscibile” scrive Schneidermann. “Da Kabul a Teheran, l’oppressore maschio indossa il turbante e il kalashnikov. Da Algeri a Creil, la donna oppressa indossa il velo, ovviamente per obbligo”. Ma Val ha lasciato Charlie nel 2009, prima che Stephane “Charb” Charbonnier prendesse in mano le redini del giornale e ci morisse con i colleghi. Anche Charb era “ossessionato dall’islam”?
Schneidermann rimprovera a Charlie di aver fatto una caricatura dell’islam. Proprio come dicono gli islamisti e i loro ambasciatori più radicali, i jihadisti. Poco importa che, tra il 2005 e il 7 gennaio 2015, Charlie Hebdo abbia dedicato 38 prime pagine alla religione su un totale di 523, secondo uno studio pubblicato da due sociologi del Monde. Tra queste, sette erano dedicate all’islam, ventuno al cristianesimo e dieci a un mix di religioni. Sono stati uccisi solo per quelle sette. Altro che “charlismo”. Ma nella Francia della soumission più che della liberté tira una strana aria di resa dei conti con lo “spirito di Charlie”.“Sono passati quasi due anni dall’ultima volta che ho messo piede all’università” rivela la studiosa dei Fratelli musulmani, Florence Bergeaud Blackler. “Ho appena saputo che la conferenza che avrei dovuto tenere all’Università di Lille non ha ricevuto l’autorizzazione del preside per ‘turbamento dell’ordine pubblico’”. E censura sia. Per un ricercatore della Sorbona, Samuel Paty era un “islamofobo” che ha mostrato in classe le caricature sbagliate. Il famoso “se l’è cercata”. Sansal, in galera col cancro per essere Charlie, per un pezzo di sinistra come la verde Sandrine Rousseau “non è un angelo”.
Il corrispondente della Bbc da Parigi, Hugh Schofield, scrive sullo Spectator: “Per le influenti classi parigine, tutto ciò ha reso Sansal un personaggio ambiguo. E’ evidente che, nonostante abbia ottenuto la cittadinanza francese l’anno scorso, non ci sia una campagna di alto profilo guidata dai politici per farlo rilasciare, nessun manifesto imponente con la sua immagine sul municipio di Parigi. Si spera che questa reticenza sia dovuta a valide ragioni diplomatiche. Ma sembra più probabile che Sansal sia il tipo sbagliato di dissidente. Nei salotti parigini, si sente molto sbuffare per l'orrore del regime algerino per aver preso in ostaggio Sansal, ma molto spesso c’è un ‘ma non dimentichiamo’, a indicare che in qualche modo se l’è cercata”.
Su iniziativa dello scrittore franco-algerino Kamel Bencheikh, una quindicina di personalità hanno firmato una petizione a sostegno di Sansal sul magazine Marianne. “Da più di tre mesi, questo immenso scrittore, coscienza lucida, è detenuto da un regime algerino disperato e pronto a sacrificare uno dei suoi più grandi intellettuali sull’altare dell’autoritarismo paranoico”. L’Europa non può permettersi di guardare dall’altra parte. “Possiamo accettare senza lamentarci che un uomo di ottant’anni, gravemente malato, venga preso in ostaggio? Che tutti capiscano che oggi restare in silenzio equivale a rendersi complici. E’ intollerabile che la Francia, l’Europa, questi bastioni storici della libertà di espressione, restino in silenzio di fronte a questa ignominia. Ogni giorno trascorso in prigione lo avvicina sempre di più alla morte”. Sansal lo aveva detto: “La delusione più grande della mia vita è l’Europa che non prende ancora sul serio i nostri avvertimenti sull’islamismo”. Cento giorni e non un solo scrittore o intellettuale italiano si è fattoancora avanti per Sansal. Va invece forte il famoso pugno “se offendi la mia mamma”. E carcerieri e tagliagole si fregano le mani.