JD Vance (Ansa)

L'editoriale dell'elefantino

J. D. Vance: il lato oscuro della forza di Trump

Giuliano Ferrara

Vance insegue il presidente sulla strada surreale opposta a quella di un vero negoziato di pace, la strada della svendita della sovranità ucraina, dell’umiliazione generale e del dileggio degli alleati nel fronte delle democrazie occidentali, della stretta di mano in parata con il dittatore di Mosca

J.D. Vance è l’intellettuale della compagnia. Viene in Europa e sale in cattedra, tiene una lezione, per certi aspetti esemplare, sui guasti del wokismo, della cancel culture, sull’odiosa pretesa di condannare chi è contro l’aborto, e sul senso sussiegoso di superiorità delle classi dirigenti europee che non capiscono il voto sovrano del cittadino comune, testimonianza di libertà anche quando non si incontra con la tolleranza dei governi verso l’immigrazione. Ben congegnato questo attacco laico al nemico dell’Europa, nemico interno, spirito di autodissoluzione, in sintonia con le prediche del patriarca Kirill. Solo che quando il voto americano ha detto: Biden, ecco che Vance ha seguito lo statista amico suo nel tentativo di rovesciare il risultato delle elezioni, certificate per ogni dove tranne che nella sua testolina di propagandista del 6 gennaio, quando gli assalitori cornuti del Campidoglio volevano impiccare il vice di Trump Mike Pence per impedirgli di proclamare l’elezione “rubata” ma confermata dai funzionari statali repubblicani, dall’evidenza del conteggio, certificata dalle corti compresa la Corte Suprema conservatrice. E Trump è stato eletto, oltre che per il volere di Dio, da lui richiamato a fianco di Vance, per la sua sfrontata e vincente capacità di gestire politicamente quella inversione della verità e quella sfida ribalda alla regola delle regole, la Costituzione.


Su questo dunque bisogna attendere qualche postilla di J. D., quando sarà uscito dalla malinconia hillbilly che affetta come sentimento piagnone e distintivo di una grande carriera, dalla miseria degli Appalachi allo sfavillante mondo di Harvard e di Peter Thiel. Nel frattempo potrebbe anche pensare al fatto che la “vox populi, vox Dei” è una possente metafora ma nulla più, a meno di non considerare esemplari le elezioni tedesche del marzo 1933, le ultime fino alla caduta del Terzo Reich dopo la sconfitta, che furono il viatico dei pieni poteri e del Führerprinzip e poi della soluzione finale o Endlösung. Per non parlare delle elezioni che da oltre due decenni incoronano un agente del Kgb abbastanza abile nel rassicurare la società russa e nell’incatenarla ai suoi apparati e lobby. 

Ora su Twitter Vance se l’è presa con Niall Ferguson, storico intelligente. Ferguson non è dei nostri, nel senso semplice che non la pensa come noi. Ha votato e sostenuto Trump, ha appoggiato il suo scetticismo sulla guerra in Ucraina e sul modo di stare dalla parte della resistenza all’aggressione scelto da Biden e dall’establishment occidentale. Dove noi abbiamo detto e scritto che la pace doveva nascere da quella stessa deterrenza che, assente, non era stata in grado di impedire a Putin il lungo percorso dalla Georgia alla Crimea al Donbas, dunque dal sostegno serio e a fondo dell’Ucraina combattente di Zelensky, la pace attraverso la forza, se vogliamo, Ferguson era più morbido, più realista ancora, meno disposto a difendere a oltranza, fino alla crisi del progetto neoimperiale di Putin, quel che si doveva difendere. Malgrado ciò J. D., che sembra la sigla di una serie dark o di un personaggio alla Darth Vader, quello del lato oscuro della forza, prende a sberle Ferguson, gli dà di globalista, insulto sanguinoso, e di somaro. Perché Ferguson ha avuto da obiettare sul modo scelto da Trump di trattare con Putin il suo legittimo desiderio di arrivare presto alla pace: passare armi e bagagli con Putin e tradire l’Ucraina e l’Europa intera, un po’ troppo zelo, dice Ferguson, somaro e globalista. 


Il punto è proprio questo. Avendo a sua disposizione il dipartimento di stato, il Pentagono, un sistema di alleanze sperimentato (Nato) e un’economia fervente in un quadro politico di consenso interno indiscusso, Trump avrebbe potuto in teoria avviare un negoziato con Putin di cui sarebbe stato promotore e signore. Cautela, sornioneria, riservatezza, malizia sarebbero servite, in tempi politici e non da numero del circo equestre, allo scopo di affermare la sua leadership e la sua ansia di figurare come un grande peacemaker, un uomo capace di realizzare la pace. Chissà che lezioni indimenticabili avrebbe potuto impartirci in merito il fervido ammiratore delle sue doti di statista, J. D., in questo caso. Preservare un margine accettabile di libertà e sovranità indipendente per l’Ucraina, guidare una vasta alleanza occidentale allo scopo (trumpiano?) di rovesciare l’impostazione di Biden e dell’Europa e di quel che restava dell’occidente transatlantico, stringendo un patto con l’aggressore ma nel contesto di alleanze ancora in piedi, e senza platealmente tradire il popolo che resiste da anni con coraggio al grande carnaio scelto dall’autocrate russo. Queste cose Vance le sa, credo, ma finge di ignorarle in nome del suo strano ma comprensibile realismo, inseguire il presidente sulla strada surreale opposta a quella di un vero negoziato, la strada della svendita della sovranità ucraina, dell’umiliazione generale e del dileggio degli alleati nel fronte delle democrazie occidentali, della stretta di mano in parata (forse il 9 di maggio?) con il dittatore di Mosca. 


L’intellettuale della compagnia deve sempre servire due padroni, il suo senso spiccato di coerenza o realismo politico e il suo bisogno di portare vasi alla Samo della rivoluzione creativa e distruttiva di un capo. Trump ha approvato come geniale una iniziativa efficace dal punto di vista propagandistico, con qualche incognita e controindicazione, presa dal suo Elon, un gigantesco Brunetta. Mandare una mail a due milioni e trecentomila dipendenti del governo federale, una mail allo stato, per chiedere, pena il licenziamento, di rispondere a una semplice domanda: che cosa hai fatto nell’ultima settimana? Altro che motosega. Ecco. Per evitare i saltafossi della diplomazia, la fatica del governo, il rispetto della storia e delle regole minime delle alleanze, il rivoluzionario Trump ha scelto di mandare in giro agli stati una mail: che cosa avete fatto negli ultimi tre anni? Niente, perché la guerra dura ancora. E allora faccio io, e presto, anche per celebrare la svolta nel segno di una nuova autorità mondiale, passando dall’altra parte (ciò che non è un dettaglio, come ha sottolineato un benaugurante Putin elogiando la sua controparte americana). Ha voglia Macron a spiegare la differenza tra pace e capitolazione. Ha voglia Starmer a lusingarlo dicendo che ha cambiato la conversazione sull’Ucraina per il meglio. Ha voglia il povero Zelensky a barcamenarsi tra i diritti della sua terra e le royalties delle terre rare. Hanno voglia tutti a chiedere garanzie minime, una Unifil a ottanta chilometri dal fronte. Trump non è un realista, ha saltato del tutto il problema della politica, ha messo sé stesso al centro della scena, costi quel che costi, e ha pensato che la sua abilità di commerciante, the art of the deal, ha tanta forza da trascinare con sé il mondo intero, insieme con l’intellettuale della compagnia. Auguri a tutti quanti. 

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.