Kaja Kallas, Ursula von der Leyen e Mette Frederiksen

L'editoriale dell'elefantino

Se l'Europa dei maschi latita, tre donne fanno da argine al realismo di Trump

Giuliano Ferrara

A suon di armi e quattrini, Kallas, Frederiksen e von der Leyen esprimono nella piena consapevolezza la serietà di quel che sta effettivamente succedendo. E a oggi sono l’unico segno di vera luce dalle nostre parti

Il problema è di trovare qualcuno che dica qualcosa di serio in Europa. Per ora ci sono tre donne di stato, Kaja Kallas, Mette Frederiksen e Ursula von der Leyen, che dicono qualcosa di serio, che lavorano a qualcosa di serio, che esprimono nella piena consapevolezza la serietà di quel che sta effettivamente succedendo. Kallas è una politica estone, liberale, formatasi come avvocato in ambiente elitario, recentemente passata dal governo del suo paese alla funzione di “ministro degli Esteri” di Bruxelles: ha detto che bisogna cercare una nuova leadership per l’occidente. Mette Frederiksen è una socialdemocratica danese, figlia di un tipografo, dirige il governo e il Partito socialdemocratico, ha tempra di realista e sull’immigrazione illegale e i suoi costi per le classi popolari prima di tutto ha posizioni severe: ha detto che l’Europa ha due mesi per prendere decisioni capaci di affermare la sua autonomia e capacità di deterrenza verso l’aggressore russo, spalleggiato da Trump, dopodiché sarà troppo tardi.

  

Ursula von der Leyen ha un padre eminente nella burocrazia europea, un marito ricco e aristocratico, sette figli, studi di Medicina sociale ed Epidemiologia, un’esperienza politica di prim’ordine nei popolari tedeschi e nei governi di Angela Merkel fino alla sua nomina, prima donna, come capo della Commissione di Bruxelles (è lì dal 2019): ha proposto un piano di riarmo dell’Europa che prevede la mobilitazione di risorse fino a ottocento miliardi.

 

                  

Queste tre donne sono a oggi, mentre tutto diventa chiaro e serio, l’unico segno di vera luce dalle nostre parti. I maschietti in assetto di leadership tradizionale che abitano i palazzi del potere di Londra, Parigi, Madrid si danno da fare, non hanno ceduto di schianto al ricatto di un presidente americano passato dalla parte del nemico della sicurezza e della libertà europea, ma si barcamenano in un gioco competitivo spesso meschino, travestito da serietà diplomatica e da stato di necessità: sembrano accettare o filtrare la premessa del tradimento della Casa Bianca, l’urgenza della pace in Ucraina, sorvolando sul suo perseguimento forzato attraverso un asse collusivo tra Washington e Mosca, cercano con qualche ipocrisia la linea di distinzione tra pace e capitolazione di fronte all’aggressione russa, parlano di garanzie da ottenere dall’alleato, “alleato”, americano e di incunearsi in un cessate il fuoco concesso dal negoziato a due tra i compari Trump e Putin con una guarnigione di soldati che sembrano la replica con l’elmetto, ma senza forza effettiva di deterrenza, delle linee rosse fissate dagli accordi di Minsk, preludio all’invasione della Crimea e poi del Donbas e poi dell’Ucraina tutta con obiettivo il dominio su Kyiv e le sue istituzioni democratiche e il suo popolo. Troppo per Trump e Putin, che hanno in mano il gioco e le carte evocate nello Studio Ovale, troppo poco per l’Europa e la sua pretesa di sicurezza e libertà dalle minacce neosovietiche. Non incarnano una concezione seria di quanto sta accadendo, non affermano una voce alternativa forte e unificante capace di contare e farsi rispettare.

  

Al conto politico europeo manca ancora la Germania, e non è poco, perché il governo in uscita non è ancora stato rimpiazzato dalla nuova formazione capeggiata da Friedrich Merz, la cui uscita sull’indipendenza dagli Stati Uniti da conquistare non sembra una semplificazione o una mera escogitazione retorica, il che fa “sperare”, ma non più di questo.

 

La questione è semplice anche contro ogni semplicismo. Trump lavora contro l’Ucraina e contro l’Europa occidentale, contro l’Alleanza atlantica nel suo fondamento storico, lavora d’intesa con Putin che lo applaude sfrontatamente, e per gli illusi che attendono la mossa del cavallo anticinese c’è la sua stupefacente (ma non tanto) dichiarazione sull’attrezzarsi del suo paese per la produzione di microprocessori “nel caso succeda qualcosa a Taiwan”, la casa madre dei semiconduttori. Il fatto è che all’origine del passaggio di campo degli Stati Uniti del trio Trump-Vance-Musk ci sono due pilastri decisivi che non si possono sottovalutare. Il primo è l’America first!, che fa le sue prove micidiali anche nel settore dell’economia e del commercio internazionale, e che considera con naturalezza elementi come sovranità, indipendenza, sicurezza delle frontiere altrui una variante subalterna rispetto al business e al riequilibrio di potere istituzionale militare economico tra le aree del mondo, a detrimento del fronte delle democrazie (presunte in declino, europee innanzitutto) e in vista di una gestione tripolare e autocratica degli interessi, la nuova Yalta delle nuove aree d’influenza. Il secondo pilastro è anch’esso una cosa solida e seria, l’idea classica di buon senso machiavellico che la forza fa il diritto, non l’opposto. In questo panorama di solido realismo l’unica possibilità realista, per non restare in una posizione subalterna e di resa mal mascherata, è la via indicata dai segnali emessi dalle tre leadership femminili citate: armi e quattrini, quattrini e armi per l’autonomia strategica nella frontiera orientale dell’Europa libera. Il resto è fuffa.

  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.