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Una risposta europea

Sulla politica industriale, l'Ue è ferma all'ideologia del Green deal

Chicco Testa

In un momento in cui la politica dei dazi cambia completamente dimensione, Bruxelles continua a comportarsi come se avesse davanti a sé tutto il tempo necessario. Senza prendere atto che l'impostazione ideologica della scorsa legislatura è stata una delle cause della perdita di competitività dell’industria europea

Se un meteorite di dimensioni gigantesche ti cade in giardino mentre stai pranzando all’aperto non puoi limitarti a dire ai tuoi ospiti che per causa di forza maggiore il caffè verrà preso all’interno. Un meteorite di dimensioni colossali è cascato sull’Europa spedito da oltre Atlantico, ma le risposte europee stentano a trovare forma. Responsabilità certo dei difficili meccanismi decisionali dell’Unione europea, ma anche di ragioni politiche profonde e divisioni fra le diverse forze. La Ue ha recentemente licenziato due misure, il Clean industrial deal e il primo di un provvedimento Omnibus – ne dovrebbero seguire altri – teso a semplificare l’eccesso di regolazione che i cinque anni passati di Green deal hanno scaricato sulle imprese europee.

L’impostazione dei due provvedimenti cerca faticosamente di tenere insieme obiettivi non sempre conciliabili e posizioni politiche altrettanto divergenti. Produce alcune discontinuità con il passato, ma rassicura che niente è cambiato. Guarda da un lato alle posizioni sempre più nettamente critiche dei Popolari europei e del probabile futuro cancelliere tedesco, Friedrich Merz, che chiedono di puntare decisamente sulla competitività, cambiando rotta rispetto al quinquennio precedente, segnato soprattutto da obblighi e regole ispirati dal Green deal e dall’altro cerca di tacitare Pse e Verdi rassicurando sul fatto che nulla è cambiato. Risultato: un programma timido e poco incisivo sia su un lato che sull’altro.

Viene abolita una serie di obblighi di rendicontazione ambientale e finanziaria (Csrd e Csddd) per le piccole e medie imprese, ma rimangono in vigore per le più grandi che forse sono quelle maggiormente esposte alla concorrenza. Si destinano cento miliardi al sostegno della competitività delle imprese, ma solo per quelle che mettono in campo processi di decarbonizzazione, con relativa creazione di una banca dati. Si continua a puntare quasi esclusivamente sulle rinnovabili, riproponendo  ricette per la riduzione del costo dell’energia già fallite,  e al nucleare è riservato solo un timido accenno. Si richiede agli stati nazionali di ridurre il carico fiscale sull’energia, ma ci si dimentica che la tassa più importante che oggi grava sui consumi energetici europei è quella sui permessi di emissione di carbonio (Ets) che per l’Italia pesa per il 25 per cento del prezzo finale. Giustificata quando il prezzo dell’energia era basso e occorreva correggere il mercato, ormai diversi anni fa, ma non oggi con prezzi così alti. 

Paradossale poi il punto sulle imposte che si dovrebbero imporre su alcuni prodotti di importazione secondo il loro contenuto di carbonio (Cbam). Di fatto un dazio sulle importazioni, ma in un momento in cui tutta la politica dei dazi ha cambiato completamente dimensione e importanza e dovrà essere radicalmente riveduta in relazione alle scelte dell’Amministrazione americana, che intende usare i dazi come una clava. Tutte decisioni per altro che dovranno essere sottoposte all’approvazione del Parlamento e quindi con tempi piuttosto lunghi.

Insomma, la Ue continua sostanzialmente a comportarsi come se avesse davanti a sé tutto il tempo necessario, cioè indefinito, mentre invece in pochi mesi ha subìto un’accelerazione enorme, e non volendo prendere esplicitamente atto che l’impostazione ideologica data al Green deal nella scorsa legislatura, una quasi esclusiva e totalizzante visione dei compiti dell’Unione, è stata una delle cause della perdita di competitività dell’industria europea.
 

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