"Fino alla fine"

Cento giorni di proteste in Georgia, tra la delusione e l'allarme di chi riconosce la minaccia russa

Paola Peduzzi

Il paese che ha già visto di tutto, l’invasione russa, la rivoluzione europeista e l’involuzione antioccidentale di un governo che crede a Putin, combatte la delusione protestando ogni sera e le bandiere ucraine si mischiano con quelle georgiane

Sono cento giorni che i georgiani protestano contro il loro governo che chiama pace quella che è una guerra, che chiama libertà quella che è una schiavitù, che si fida della Russia più che dell’Europa, che ha interrotto il sentiero (in salita, ma pur sempre un sentiero) che portava verso l’integrazione dentro l’Unione europea – lo fece il 28 novembre dello scorso anno, cento giorni fa. Ieri i luoghi della protesta a Tbilisi e in tutte le altre grandi città si sono riempiti prima del solito, per celebrare la tenacia e denunciare la repressione. 

I georgiani chiedono che si facciano nuove elezioni e che il governo guidato da Sogno georgiano liberi tutti i politici dell’opposizione, gli attivisti, i giornalisti, gli artisti rinchiusi in carcere senza ragione – il dissenso pacifico, coraggioso, risoluto in galera soltanto perché esiste. Sogno georgiano risponde, da cento giorni, con l’unica arma che conosce, la forza, aumentando i pestaggi, gli arresti, le accuse, le intimidazioni, accucciandosi sempre di più vicino alla Russia (che pure occupa illegalmente il 20 per cento del territorio georgiano) e attivandosi contro il Partito globale della pace, che è l’occidente, replicando le parole e i metodi e le menzogne russi. Al Senato americano, sarà discussa la prossima settimana la legge Merogabi, un’iniziativa bipartisan che chiede sanzioni per i leader di Sogno georgiano che hanno commesso abusi contro i diritti e contro la democrazia, ma l’America che già si muoveva cauta e circospetta quando c’era la precedente Amministrazione ora è ancora più lontana, avviluppata dall’urgenza di Donald Trump di siglare una pace a tutti i costi e con tutti i dittatori, a cominciare da Putin. Lo stravolgimento trumpiano è calato funereo sull’Ucraina, punita per aver resistito tre anni e per non voler accettare una resa, e questa punizione, come tutto, si misura in attacchi russi che la contraerea ucraina non riesce a contrastare, quindi in morti, feriti, macerie, e in armi e informazioni che non ci  saranno più. Negli altri paesi che hanno subìto l’aggressione russa, lo stravolgimento trumpiano cala come una cancellazione di 35 anni di storia, quella dopo il crollo dell’Unione sovietica.

Nel 2008, quando Putin invase la Georgia diretto a Tbilisi, l’allora presidente polacco, Lech Kaczynski, andò nella capitale georgiana e disse: “Lo sappiamo bene: oggi è la Georgia, domani sarà l’Ucraina, dopodomani i paesi baltici e poi arriverà il momento per il mio paese, la Polonia”. L’ex ministro degli Esteri lituano, Gabrielius Landsbergis, ha ricordato in questi giorni una barzelletta che tutti i cittadini che hanno vissuto nell’Urss conoscono: un uomo chiede a un altro una sigaretta. L’altro gli risponde che non ce l’ha. “Hai un accendino?”. “No, non fumo”. Il primo uomo sospira e poi tira un pugno all’altro. “Perché?”, chiede l’uomo colpito. “Perché non porti il cappello”. E’ così che funzionava con i sovietici, è così che funziona oggi con Putin: “Anche per le strade funzionava così – scrive Landsbergis – Se avevi una sigaretta, te la prendevano, se avevi dei soldi, te li prendevano, se non avevi niente da dare, ti picchiavano, solo per il gusto di farlo. Non c’era una risposta giusta, perché le sigarette  o i soldi o i cappelli non c’entravano niente: era solo una questione di potere”. Ci si provava a difendere per sopravvivere, ognuno a suo modo, ma “quel che di sicuro nessuno faceva era pensare che  una sigaretta, qualche soldo o un cappello potesse salvarti. Questo era l’errore di chi non aveva capito le regole: davano tutto quello che avevano e venivano picchiati lo stesso”. E’ il potere, è la sottomissione, il punto, ed è per questo che Trump oggi sembra uno che si mette il cappello (sottraendolo agli ucraini) convinto che così otterrà la tanto ambita (e vuota) pace da Putin. I russi preparano il passo successivo, il prossimo da colpire. Chi studia la propaganda russa ha visto crescere l’accanimento sui paesi baltici, descritti come guerrafondai, corrotti, schiavi dell’occidente e pronti a invadere la Russia, per conto della Nato: è il solito metodo, ma oggi è rinvigorito dal fatto che dall’altra parte del mondo, in America, c’è una leadership permeabile a questi pretesti.

La Georgia che ha già visto tutto, l’invasione russa, la rivoluzione europeista e l’involuzione antioccidentale di un governo che crede a Putin, combatte la delusione protestando ogni sera, da cento giorni, le bandiere ucraine si mischiano con quelle georgiane, molto più di prima, a saldare un’alleanza forte e mesta, perché ora c’è questa solitudine impossibile da ignorare e impossibile da accettare: l’America è lontana. I fuochi d’artificio, i canti, i cartelli si fondono con la delusione, ma in queste piazze che conoscono bene le conseguenze della sottomissione si urla: “Fino alla fine”. Il volto di Mzia Amaglobeli fa da incoraggiamento: arrestata a gennaio, è in sciopero della fame da quaranta giorni, è comparsa in tribunale questa settimana sperando in un rilascio prima del processo. Non lo ha avuto.
 

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi