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1938, agguato all'Austria
Così Hitler liquidò il cancelliere Schuschnigg prima dell’Anschluss. Come l’imboscata di Trump a Zelensky
Tirava una brutta aria. Ma nessuno dei presenti, da nessuna delle due parti, tranne l’ospitante stesso, e forse i suoi più fidati scherani, si aspettavano che il vertice al massimo livello sarebbe stato un vero e proprio agguato, un atto di bullismo puro, sarebbe degenerato in rissa con tanto di urla e minacce. Mancavano solo microfoni e telecamere per mostrarla in diretta mondiale.
Era il 12 febbraio 1938. Il cancelliere austriaco, Kurt Alois von Schuschnigg, si era presentato al Berghof, il quartier generale di Hitler incastonato nelle Alpi, non lontano dalla frontiera tra Germania e Austria, senza sospettare l’agguato. Alla frontiera era stato accolto da Von Papen, l’uomo che aveva portato Hitler alla cancelleria. Non che l’allora quarantunenne avvocato Schuschnigg fosse ingenuo. Aveva studiato dai gesuiti. Partito come cristiano-sociale, aveva aderito, dopo la messa al bando di tutti gli altri partiti, al fascisteggiante Fronte patriottico (Vaterländische Front). Era succeduto a capo del governo a Engelbert Dollfuss, il fascista austriaco assassinato dai nazisti filo Berlino. Di quel governo era stato ministro della Giustizia. Papen l’aveva informato che il Führer era di ottimo umore. E gli aveva preannunciato che avrebbe trovato Hitler in compagnia di tre generali, “che si trovavano lì per caso”: il nuovo capo di Stato maggiore Keitel, il comandante delle forze alla frontiera tra la Baviera e l’Austria, Reichenau, e il capo della Luftwaffe nella regione, Sperrle. “Spero che non le dispiaccia”, gli aveva detto. Più tardi, Papen avrebbe rivelato che “gli ospiti apparentemente non avevano gradito”.
Hitler indossava l’uniforme senza insegne da Führer. Un abito militare. Schuschnigg era in rispettoso abito scuro. Schuschnigg aveva esordito, come cortesia vuole in incontri del genere, lodando la magnifica vista sulle Alpi innevate che si godeva dalle finestre. Una casa in mezzo al bianco. “Non siamo qui per parlare del paesaggio e del tempo”, l’aveva bruscamente interrotto Hitler. Erano seguite due ore di monologo. “Avete fatto di tutto per non dimostrarvi amichevoli… Tutta la storia dell’Austria è un continuo atto di alto tradimento… E posso dirle, signor Schuschnigg (per tutto il colloquio lo chiamerà per nome, anziché rivolgersi all’ospite menzionando la sua carica, come cortesia diplomatica vorrebbe), posso dirle che sono assolutamente determinato a farla finita… Io ho una missione storica, e la condurrò a termine, perché a questo mi ha destinato la Provvidenza… Non pensate nemmeno per un istante che qualcun altro sulla faccia della terra si metterà di traverso alle mie decisioni… L’Italia? Con Mussolini ci parliamo direttamente… L’Inghilterra? L’Inghilterra non muoverà un dito… Le do, signor Schuschnigg, una volta ancora, e per l’ultima volta, l’opportunità di arrivare ad un accordo. O troviamo una soluzione ora, o gli eventi seguiranno il loro corso… Ci pensi signor Schuschnigg. E ci pensi bene. Io posso aspettare solo fino a questo pomeriggio…”. Schuschnigg aveva chiesto sommessamente che il collega tedesco fosse più preciso su quali fossero le sue lamentele e quali le sue proposte per rimediare. “Potremo discuterne nel pomeriggio”, la risposta di Hitler.
Durante la pausa pranzo, altra lunga tirata di Hitler su come la Germania avrebbe costruito i grattacieli più alti che si fossero visti al mondo. “Glie lo mostreremo noi agli americani, che sappiamo costruire meglio di loro…”. Dopo avergli permesso di sgranchirsi le gambe in un’angusta anticamera, agli ospiti austriaci fu presentata una bozza di “accordo”. Per la precisione, non una bozza, ma un vero e proprio ultimatum. Un diktat da prendere o lasciare, senza discussione. Prescriveva la rescissione della messa al bando del partito nazista austriaco, la nomina del nazista Seyss-Inquart a ministro dell’Interno, l’amnistia per tutti i nazisti incarcerati per il tentato colpo di Stato, la nomina di un altro nazista a ministro della Guerra, praticamente la fusione delle rispettive forze armate, l’assimilazione delle rispettive economie, garantita dalla nomina di un altro nazista ancora a ministro delle Finanze. “Mi resi conto subito che accettare l’ultimatum avrebbe significato la fine dell’indipendenza dell’Austria”, avrebbe poi scritto Schuschnigg.
Fu nuovamente convocato da Hitler. Lo trovò che passeggiava nervosamente nel suo studio. “Signor Schuschnigg, lei ha avuto la bozza. Non c’è niente da discutere. Non cambierò una virgola. O lei firma, oppure ordinerò di marciare sull’Austria. Schuschnigg capitolò. Eccepì solo che avrebbe prima dovuto presentare il testo al presidente della Repubblica, il solo che avesse l’autorità costituzionale di firmare un documento del genere. Hitler perse a questo punto il controllo. Cominciò a inveire. Corse alla porta. Chiamò a gran voce il generale Keitel. Quello arrivò chiedendo quali fossero gli ordini. “Nessun ordine. Voglio solo che lei sia presente”. Poi si calmò. E rivolto a Schuschnigg: “Ho deciso di cambiare idea, per la prima volta nella mia vita. Vi do altri tre giorni. Ma vi avverto: è la vostra ultima occasione…”.
Schuschnigg sostiene nei suoi ricordi che a quel punto chiese a Hitler: “Signor Cancelliere del Reich, Lei crede che le diverse crisi nel mondo possano essere risolte in modo pacifico?”. “Se si segue il mio parere”, avrebbe risposto Hitler. Aggiungendo: “Al momento la situazione mondiale sembra promettente, non crede?”. Secondo Schuschnigg non c’era il minimo tono di sarcasmo nell’affermazione. Si era fatto buio, era calata una coltre di nebbia. Schuschnigg declinò l’invito a fermarsi per cena e salì in auto alla volta di Salisburgo. “Ha visto come è il nostro Führer a volte! Ma sono sicuro che la prossima volta sarà diverso. Lui sa anche essere incantevole”, gli disse Papen nell’accommiatarlo. Papen non era già più vice cancelliere di Hitler. Così come, già prima ancora, da capo delle forze armate era stato rimosso il generale Beck, fermamente contrario alla guerra, sostituito del tirapiedi Keitel. La scusa nel caso Beck era che il generale aveva sposato una ex ballerina. Scandalo inammissibile per l’onore della Wehrmacht, secondo Hitler.
Donald Trump non è Hitler. E’ molto più rozzo. L’agguato teso alla Casa bianca a Zelensky è ancora più disgustoso di quello teso nel 1938 al Berghof a Schuschnigg. La situazione era effettivamente promettente per i nazisti. Hitler si era riappropriato della Renania dell’acciaio e del carbone, e non era successo nulla, tranne qualche protesta francese. Francia e Inghilterra non erano d’accordo su quasi nulla: continuavano a pensare solo ai vantaggi e svantaggi del proprio paese, anzi peggio, alle proprie scadenze elettorali, incuranti del quadro complessivo. Poco ci mancava che dessero anche pubblicamente la colpa di tutto all’intransigenza della Cecoslovacchia. Lo facevano, senza mezzi termini, nel florilegio di conversazioni diplomatiche riservate. Ma non tanto riservate che Berlino non ne avesse sentore. Polonia. Ungheria, Romania, pregustavano la riappropriazione dei territori popolati da loro minoranze etniche che erano stati assegnati alla Cecoslovacchia dopo la Prima guerra mondiale. Senza sospettare che poco dopo sarebbe toccato ai loro paesi. L’Italia di Mussolini giocava a fare da paciere, da “ponte”, senza sospettare che il ponte li portava dritti nelle braccia di Hitler.
Roosevelt non era uno sprovveduto. Era entrato alla Casa bianca poco dopo che Hitler fu fatto cancelliere. Non sottovalutava quanto fosse pericoloso. “La situazione è allarmante. Hitler è un pazzo, e i suoi consiglieri, alcuni dei quali conosco di persona, sono ancora più pazzi di lui”, aveva detto a suo tempo all’ex ambasciatore di Francia Paul Claudel. E dire che in quel momento Hitler si presentava ancora come “uomo di pace”, un moderato, pronto a collaborare con la Società delle Nazioni. Roosevelt era un isolazionista convinto. Se non altro per forza maggiore. Profondamente isolazionista era l’opinione pubblica americana. L’80 per cento dell’opinione pubblica americana voleva starsene fuori dalle beghe in Europa. Austria e Cecoslovacchia erano per loro nomi più astrusi di quanto sia oggi Ucraina.
“Chiederebbero il mio impeachment, se facessi altrimenti”, aveva confidato Roosevelt ad un suo stretto collaboratore. Sperava che fosse possibile un accomodamento, un gentlemen’s agreement con Hitler. Non poteva permettersi di rompere con gli imprenditori e la finanza Usa che vedevano grandi prospettive di affari con la Germania, e assaporavano la condivisione delle risorse minerarie dell’Europa centrale. Già se li era messi fin troppo contro col suo New Deal. Della sorte degli ebrei gli importava poco. Figurarsi di quella di Austria e Cecoslovacchia. I suoi ambasciatori erano anche più sanguigni nel rabbonire Hitler. Il professor Dodd, da lui nominato ambasciatore a Berlino poco prima che arrivasse al governo Hitler, prima si era lasciato abbindolare, ma poi fu sostituito quando cominciò a riferire che le cose si mettevano male. In Inghilterra lo rappresentava Joseph, il patriarca dei Kennedy, era un attivissimo sponsor dell’appeasement. Rassicurava il suo collega tedesco presso la Corte di San Giacomo, Herbert von Dirksen, di essere totalmente d’accordo con la politica razziale del Reich, e anche con gli obiettivi economici tedeschi nell’Europa orientale e sudorientale.
Nel marzo 1938, una settimana dopo l’annessione armata dell’Austria, l’ambasciatore francese a Washington, il conte René de Saint-Quentin, riferì al Quai d’Orsay di aver incontrato Roosevelt alla Casa bianca, notando che indossava vistose scarpe gialle (“souliers jaunes”), e che il presidente americano gli aveva detto chiaro e tondo che la Cecoslovacchia non sarebbe stata in grado di resistere alle pressioni tedesche senza l’aiuto di Inghilterra e Russia, aiuto che a suo avviso non sarebbe mai venuto. Il suo consiglio a Parigi era di abbozzare e cercare di migliorare i rapporti con Hitler. “Se no, rischiate la guerra e se la perdete perdiamo anche noi”. Prima di Monaco aveva fatto sapere senza mezzi termini al presidente Beneš che la Cecoslovacchia non poteva contare su alcun aiuto da parte degli Stati uniti. “Sono i fatti della vita”, avrebbe detto a Beneš, aggiungendo la beffa al danno, il nuovo ambasciatore Usa in Germania, Hugh Wilson, incaricato di un tour nelle capitali del centro Europa. Il consiglio era che soddisfacessero le richieste della Germania. Dopo Monaco, il suo unico rincrescimento era il non aver partecipato e non aver avuto un ruolo più prominente nell’appeasement. Ci sarebbe voluto ancora un po’ perché si rendesse conto che quella sarebbe diventata una parolaccia, e della fortuna di non aver preso parte a quella resa vergognosa dell’Occidente. E’ un luogo fin troppo comune che i responsabili della capitolazione fossero l’inglese Chamberlin e il francese Daladier. I quali litigavano tra di loro, ma forse non avevano molta scelta senza l’appoggio di Roosevelt. Un documento scovato negli archivi dell’Intelligence britannica dell’epoca è impietoso. Taccia il desiderio di Roosevelt di fare pace con Hitler di “sporco trucco” per assicurarsi la rielezione e, al tempo stesso, addirittura di “crimine contro il buon senso”.
Tra i due rischi, il dilagare del nazismo in Europa e il possibile coinvolgimento dell’America in una guerra in Europa, Roosevelt considerava largamente maggiore il secondo. Inutilmente Francia e Inghilterra invocavano una “garanzia americana”. A guerra già iniziata in Europa, quando la Francia era caduta, il corpo di spedizione britannico si era reimbarcato a Dunkerque, i nazisti avevano già invaso e spartito la Polonia con l’Unione sovietica, conquistato Danimarca e Norvegia, Roosevelt era impegnato nella sua terza e ultima campagna presidenziale. Sia lui che l’avversario repubblicano Wendell Wilkie concordavano nel promettere che avrebbero, se eletti, evitato qualsiasi intervento militare diretto dell’America. “L’ho detto in precedenza e continuerò a ripeterlo ancora e ancora: i nostri ragazzi non andranno in nessuna guerra all’estero”, ripeteva Roosevelt. Ci sarebbe dovuto essere il “giorno dell’infamia” dell’attacco giapponese a Pearl Harbour a fargli cambiare idea.
Come Roosevelt, neanche Stalin aveva preso parte alla Conferenza di Monaco del 1938. Si era opposto all’Anschluss, aveva un patto di mutua assistenza con la Cecoslovacchia di Beneš. Ma aveva posto una condizione: niente intervento se a fermare, anzi al momento solo scoraggiare Hitler non fossero intervenuti anche Francia e Inghilterra. In Spagna si stava consumando la sconfitta della Repubblica. Era in corso le decisiva battaglia dell’Ebro, Franco stava per iniziare l’offensiva finale contro la Catalogna. Stalin si era già portato via, in gran segreto, con un sottomarino, l’oro della Banca centrale spagnola, a ripagare le armi che l’Urss aveva fornito per difendere la repubblica. Quella volta il ruolo di Trump l’aveva interpretato Stalin. Già meditava probabilmente il piano B, una giravolta completa: fare un patto con Hitler per spartirsi Polonia e Paesi baltici, con le rispettive risorse. Licenziò senza complimenti il suo ministro degli Esteri ebreo, Litvinov, per sostituirlo col più malleabile Molotov. Impressionante come nei momenti decisivi la scelta dei grandi, tutti i grandi, cada sul peggiore, sul più sicofante. L’umiliazione di Schuschnigg e di Beneš si sarebbero ripetute tali e quali dopo che, a guerra vinta, si spartirono l’Europa a Yalta. Il ministro degli Esteri di Beneš, Jan Masaryk, si gettò (o fu gettato) da una finestra del suo ufficio a Palazzo Cernín a Praga.
Impressionati dalle analogie? Tranquilli. Ci sono anche delle differenze: molto di tutto ciò non successe in mondovisione mediatica. Non si era sentito Hitler dire, come ha fatto Trump cacciando Zelensky: “Grande televisione”. L’agguato era stato accuratamente, teatralmente messo in scena, perché tutti potessero assistervi. Dopo aver visto in diretta tv la scena, ero andato a dormire molto turbato. Avevo fatto un sogno: l’Europa reagiva, ribadiva pieno sostegno all’Ucraina, gli diceva che le terre rare ce le prendevamo noi, che gli americani ce le comprassero se gli servivano, mandava a quel paese Trump, Vance e Musk. Era un sogno. Prima di lasciare il Berghof l’umiliato Schuschnigg aveva proposto un comunicato. Hitler gli aveva risposto: “No. Prima dovete ottemperare alle [mie] condizioni. Diremo alla stampa solo che il Führer e il Bundeskanzler austriaco hanno conferito al Berghof. Questo è tutto!”.