
(Ansa)
lo sguardo in avanti
Il futuro dell'Europa tra instabilità globale e nuove sfide geopolitiche
Il collasso del sistema sovietico e la disgregazione di quello americano-centrico hanno sottolineato la posizione di un’Unione europea spesso rimasta rivolta al passato. I segnali di risveglio innescati dalla guerra in Ucraina e dall’evoluzione dei rapporti con Washington
La comparazione tra 1985-1991 e 2001-2025 – gli anni delle crisi delle due superpotenze che avevano dominato il mondo dopo il 1945 e sono diventate oggi due importanti agenti di destabilizzazione – apre prospettive interessanti, facendo luce su fattori, dinamiche e possibili periodizzazioni e chiarendo la situazione in cui vivono oggi i paesi europei. Nel primo periodo crollò velocemente la modernità socialista, trascinando con sé lo stato “federale” che l’aveva creata e il suo potere imperiale, inviso ai suoi vassalli europei e malvisto o tollerato da quelli interni. Nel secondo si è disgregato il sistema politico costruito sulla “modernità del benessere” statunitense, una disgregazione a lungo rallentata dal suo riuscire gradita a molti, ma non fermata perché la storia fa sempre la sua strada. Sul primo periodo, che si può estendere al 1994, vale a dire alle guerre balcaniche e ai primi sanguinosi conflitti interni all’ex Unione sovietica (Abkhazia e Cecenia), si può andare velocemente, perché meglio studiato e più facile da capire. L’Urss e il blocco socialista andarono in crisi a causa del disperato tentativo dei loro gruppi dirigenti di riformare un sistema che funzionava malissimo, pesando sulla vita delle persone. Nell’Urss dei primi anni Ottanta la carne non si trovava regolarmente nemmeno nelle città di provincia, persino Molotov doveva farsi comprare illegalmente all’estero un apparecchio acustico, e a causa dell’alcolismo l’attesa di vita per i maschi, in diminuzione dal 1965, era di 10-15 anni inferiore a quella occidentale (in crescita) e gli aborti erano quasi il doppio delle nascite.
L’avvio delle riforme che portarono al crollo fu accompagnato da una fiammata di speranze prima in un nuovo socialismo, che contagiò anche l’Italia col suo partito comunista, e poi – dopo il suo evidente fallimento – negli effetti miracolosi del passaggio a un “capitalismo” impossibile perché capitalismo e socialismo sono solo categorie teoriche, non alternative reali cui si aderisce per semplice scelta. Al primo, in particolare, corrisponde nella realtà un sofisticato sistema storico, economico e culturale al quale paesi senza regole, banche, codici commerciali o apparati fiscali come quelli post-sovietici non potevano certo transitare di colpo, finendo piuttosto col precipitare nel regno primitivo del più forte. La Russia si ritrovò di colpo declassata da superpotenza mondiale a potenza regionale, come notò Obama nel 2014, ma potenza regionale molto speciale per via di una eredità sovietica che comprendeva il più grande arsenale atomico del mondo e forti strutture e mentalità imperiali, presto rinvigorite dai soldi che derivavano dal suo essere un grande esportatore di materie prime, gas e petrolio. Negli anni Novanta la depressione per la fine dell’illusione socialista, presto seguita dalla delusione e dalla rabbia per quella del fallimento di una rapida e indolore “transizione al capitalismo” alimentò la convinzione di buona parte dei ceti dirigenti e della popolazione che la Russia non era vittima di se stessa e della sua storia, bensì dell’umiliazione impostale da un nemico, l’“occidente collettivo”. La debolezza obbligò Mosca dapprima a corteggiarlo, covando sogni di rivalsa. Poi la sua crescente fragilità, svelata dalla crisi del 2008 e dalla rottura con la Cina, parve aprire la strada che riportava allo status perduto di superpotenza, un sogno culminato con l’invasione dell’Ucraina. Esso resta però irrealizzabile perché minato dalle limitate dimensioni di una popolazione in crisi demografica e da un apparato industriale e tecnologico di terz’ordine, ancorché alimentato dai ricavi dell’esportazione e dai risparmi sulle pensioni di una popolazione che continua a morire dieci e più anni prima che da noi.
Le ex repubbliche sovietiche dell’“impero interno” assistettero al crollo con stupore, senso di liberazione (nel Baltico o in Georgia) e anche contrarietà, specie in Asia centrale. Esso fu ovunque pesante, perché tutte pativano i danni di una modernità molto più dura di quella occidentale, ma lo fu di più in quelle prive di materie prime. Ciascuna imboccò allora una sua via e chi esportò soprattutto lavoratori, ed era favorito dalla sua collocazione geografica, come l’Ucraina, si orientò col tempo verso un’Europa il cui stile di vita era molto più attraente di quello russo. Ma la Russia di Putin, che stava ribattezzando quello che sotto Eltsin si chiamava l’“estero vicino” in “mondo russo” e si lanciava nel suo “diventare di nuovo grande” non poteva tollerare queste divergenze e si trasformò così nel primo grande fattore di destabilizzazione del nuovo mondo. Nell’impero sovietico “esterno” la gioia per il crollo fu moltiplicata dalla ritirata dei “russi” e dalla successiva abbastanza rapida associazione, e poi adesione, all’Unione europea. Essa aiutò i paesi ex socialisti a superare la crisi e garantì loro dei piccoli boom, più brevi e meno intensi, tuttavia, di quelli che avrebbero potuto aver luogo 30 o 40 anni prima perché gravati dalle difficoltà che la modernità “maggiore” stava vivendo dagli anni Settanta anche nei paesi dell’Europa occidentale.
In tutto il nuovo occidente a guida americana nato nel 1945, il 1989-1991 fu festeggiato come un trionfo, a sua volta espressione della superiorità indiscutibile del proprio sistema, che era certo tale a confronto di quello sovietico. Quella superiorità era però minata da contraddizioni che si preferì non vedere, come la crisi demografica, già evidente nel 1972; l’esaurimento del serbatoio contadino interno, che aveva fornito ai “Trenta gloriosi” buona parte del loro carburante; l’emergere dei paesi decolonizzati e in particolare della Cina; e la divergenza, già avviata negli anni Sessanta, tra l’esperienza statunitense e quella europea. Gli Stati Uniti non videro anche perché ammaliati dal loro sentirsi l’unica grande potenza, mentre la neonata Unione europea accecata dalla facilità e dalle promesse della vittoria, scelse per sé e la sua espansione un nome ingannevole, che nascondeva la sua natura associativa e le complicazioni causate dal suo pur giusto allargamento. Entrambi i partner preferirono inoltre ignorare le ovvie e crescenti difficoltà di una Nato nata per un’altra epoca e altri compiti, senza riflettere sulla necessità di una sua riforma profonda per gestire il nuovo mondo globale di cui pure tutti sentivano l’ascesa. Nell’illusione che la fine della Guerra fredda equivalesse all’avvento della pace, si cominciò piuttosto a concepirla come una sorta di polizia militare di un occidente trionfante, che tale però non era se non rispetto al sistema sovietico. Soprattutto, entrambi i due poli dell’occidente del 1945 avevano già imboccato strade diverse. Nel 1960 l’84 per cento della popolazione immigrata negli Stati Uniti era nata in Europa o in Canada, il 4 per cento in Asia e il 10 per cento in Messico o America latina. Già nel 2000, però, in pieno boom migratorio, la percentuale europea era precipitata al 19 per cento, quella asiatica salita al 23, e quella di Messico e America latina balzata al 51. Venti anni dopo si era rispettivamente al 13, 28 e 50 per cento, di cui metà proveniente dal Messico. Questo distanziamento fisico era accompagnato da un distanziamento culturale forte non solo tra i nuovi immigrati, che dell’Europa non sapevano nulla, ma anche tra giovani che erano ormai nipoti o pronipoti di immigrati europei. Già all’inizio del nuovo millennio, per esempio, la storia europea stava diventando un animale raro persino nelle migliori università, e nei venti anni successivi essa è diventata sempre più marginale.
Negli Stati Uniti la convinzione di controllare il mondo fu presto sostituita dalla reazione incredula all’11 settembre, dalla sconfitta politica di un ingenuo, ancorché ben intenzionato, tentativo di risolvere le cose “esportando la democrazia” con le armi, e dalla sensazione che la stessa esistenza di un “èra americana” fosse minacciata. Già nel Duemila la percentuale statunitense sulla produzione industriale del mondo, pari nel 1950 al 60 per cento, si era dimezzata, ed essa è oggi inferiore al 20 per cento, a fronte di una vertiginosa ascesa di quella cinese, a lungo sostenuta proprio dagli Stati Uniti. Nel grande spostamento delle faglie economiche mondiali, inoltre, il posto dell’Europa è stato progressivamente occupato dall’Asia, mentre dall’Africa subsahariana arrivavano segni sempre più evidenti dell’avvio di un grande boom.
Paradossalmente, però, il boom dell’emigrazione e una grande stagione di progresso scientifico e tecnologico – figlia della sostituzione delle università di ricerca americane a quelle europee, affondate dalla combinazione tra guerre mondiali, fascismo, nazionalismo e comunismo – stavano intanto rafforzando un’economia che perdeva terreno solo in termini assoluti. Il risentimento poteva quindi contare su grandi riserve di energia, ed era perciò potenzialmente tanto più pericoloso. Esso era nutrito da correnti comuni a tutte le società moderne mature, ma il “bacino reazionario di massa” che esse alimentavano prendeva anche per questo negli Stati Uniti caratteristiche particolari. A questo “bacino”, che è essenziale comprendere, spero di dedicare presto un pezzo, ma vale la pena richiamare qui i suoi affluenti principali: il numero crescente di vecchi, spesso soli, in primo luogo, e poi i maschi, specie ma non solo quelli meno istruiti; molti di quelli che ricevono una “valutazione” insufficiente da un sistema di istruzione di massa che determina il futuro di chi lo frequenta; molti degli scontenti (tra cui un importante segmento femminile) del “disordine” della vita moderna, un disordine che hanno spesso scelto e di fatto preferiscono, ma non amano; alcuni settori religiosi, e infine i ceti meno agiati che si sentono minacciati dall’immigrazione illegale anche quando sono a loro volta di recente immigrazione.
Quel bacino è insomma gonfiato dal disagio dei penultimi (che tali sono spesso psicologicamente anche i vecchi agiati) di fronte all’ascesa degli ultimi, in patria come nel mondo ed esso è stato mobilitato e radicalizzato dalla rapida ascesa – che comincia già sotto Bush Jr., ma si accelera con la crisi del 2008 e negli anni di Obama – di una sinistra ideologica e aggressiva, a sua volta espressione dei, e reazione ai, mutamenti in corso, che ha contribuito a schiacciare il centro. E’ questo lo sfondo del fenomeno Trump che ora, nella sua seconda e radicalizzata versione, potrebbe sfociare in un regime autoritario populista, fondato su un almeno parziale sostegno popolare. Esso era stato preceduto da un fenomeno Obama (reso tale più dall’eccitazione dei suoi ferventi sostenitori che dalla volontà del suo leader), tanto simile nel fine (una trasformazione radicale di un paese ritenuto in crisi) e negli strumenti per attuarla (l’uso del potere amministrativo), quanto diverso negli obiettivi e nei segmenti della popolazione che lo sostenevano.
La loro concentrazione su una “rivoluzione americana” ha reso inoltre i tre fenomeni – Obama, Trump 1 e Trump 2 – altrettanti gradini in una scala che sembra portare dalle crociate per la democrazia di Bush Jr. a una nuova forma di isolazionismo. Come ha scritto di recente un intelligente conservatore americano, Ross Douthat, il Maga sa che gli Stati Uniti non sono più in grado di sostenere un’egemonia su scala mondiale e sarebbe quindi pronto a fare accordi con chiunque pur di potersi poi concentrare sui suoi obiettivi, che sono essenzialmente interni. Come ha dichiarato Trump nei giorni scorsi, non bisogna pensare troppo a Putin, le cose importanti sono la lotta agli immigrati illegali e alla cultura woke e soprattutto quella al deep state (che non è il capofila di fantomatici complotti, ma lo stato amministrativo costruito a partire dal New Deal), per porre termine al declino americano ed evitare di fare la fine dell’Europa. Nelle analisi Maga quest’ultima è infatti un “paese” spento e marginale, reso tale da un inarrestabile declino demografico, da un’eccessiva regolazione e da una retorica falsa e ipocrita, che gli impedisce di vedere la realtà.
Che l’Unione europea abbia spesso nascosto la testa nella sabbia è indubbio: lo ha fatto nel 1991 – quando ha preferito non vedere la necessità di ripensare i suoi rapporti con Stati Uniti che marciavano ormai su una strada diversa e abbracciato l’illusione di chiamare Unione ciò che non lo era, allargando poi un’associazione senza rivederne i meccanismi decisionali – e poi di nuovo nel 2008, e soprattutto nel 2014 di fronte all’annessione della Crimea da parte di Putin, quando si decise di far finta di nulla. Come nel caso della decisione di non fare i conti (se non con molto ritardo e mai sulla scala necessaria) con la crisi demografica e i suoi effetti, e con quelli del veloce emergere di nuovi paesi e continenti, queste scelte miopi sono state prese “razionalmente”, perché sul breve periodo erano quelle più convenienti. Ma ha contato anche la difficoltà psicologica di vedere una realtà sgradevole, tanto più in paesi che avevano appena vissuto l’epoca gloriosa dei “miracoli”, vivevano del suo mito e aspiravano a tornarvi. La lunga crisi dell’occidente del 1945 è stata quindi vissuta in Europa con un misto di rifiuto, rimpianto e cupezza diverso da quello americano e lontano dalle speranze nutrite almeno fino al 1989 in un blocco socialista desideroso di rinnovarsi e/o cominciare una nuova vita. Queste caratteristiche riflettono abbastanza bene le caratteristiche del “bacino reazionario di massa” della modernità matura europea, simile a, ma anche diverso da, quello americano. L’Europa ha una popolazione più vecchia, e con più vecchi, ha perso posizioni economiche e status molto più degli Stati Uniti, e almeno una parte dei suoi abitanti vive ormai in un clima di aspettative decrescenti.
L’immigrazione vi crea inoltre problemi e reazioni molto maggiori (e probabilmente in via di inasprimento per l’arrivo della linea del colore) di quante non ne abbia creati negli Stati Uniti. E’ così per la sua diversa storia, la minore esperienza e i ripetuti errori nella gestione degli immigrati, ma anche perché l’Europa viene da due e più secoli di progressiva e crescente omogeneizzazione etnoculturale, spontanea e spesso anche ferocemente cercata, un’omogeneità ormai impossibile ma che molti rimpiangono anche perché giudicata e in parte mitizzata come regno di legge, ordine e fratellanza. Forti elementi mitici sono legati anche al già ricordato rimpianto per l’epoca d’oro dei “Trenta gloriosi”, eletta irrazionalmente a norma benché sia un obiettivo impossibile da raggiungere, come suggerisce lo stesso fatto di averla a suo tempo battezzata “miracolosa”. Parti importanti della destra e della sinistra europee vivono quindi con la testa rivolta al passato, e sono quindi oggettivamente reazionarie, come lo sono segmenti importanti della popolazione per motivi che si possono comprendere e vanno compresi, ma che restano espressione di irrazionalità e quindi autolesionisti. Il Covid, l’aggressione russa, la resistenza ucraina, e la rapida evoluzione del rapporto con gli Stati Uniti ci stanno costringendo a vedere una realtà molto diversa, e peggiore, da quella in cui credevamo di vivere. Allo stesso tempo, questi eventi hanno innescato segni positivi di risveglio che vale la pensa di ricordare, dalle iniziative di Macron al riavvicinamento col Regno Unito, alla vittoria di Merz in Germania e alla determinazione che sembra animarlo, alla presa di coscienza che occorre supplire alle fragilità dell’Unione con l’iniziativa di gruppi di stati volenterosi, all’abbandono di ideologismi che contribuivano a indebolire l’economia europea.
Non è detto che questi segni positivi prevalgano e già nelle prossime settimane la capacità di Merz di far passare misure cruciali prima dell’inaugurazione di un nuovo parlamento dove sarebbe molto più difficile farlo fornirà indicazioni a proposito. Se anche esse fossero positive, l’entità dei problemi da risolvere il più velocemente possibile resterebbe comunque grande, come ci ricorda quello – primario – della costruzione un ombrello nucleare europeo indipendente (cosa assai difficile ma meno che integrare 10 o 15 eserciti), che rappresenterebbe la base essenziale della nostra sicurezza e che servirebbe anche a proteggere l’Ucraina libera salvata dalla resistenza all’invasione. Occorrerebbe anche trovare un nuovo ruolo per l’Unione europea e soprattutto verrà – e forse prima del previsto se Washington prenderà come sembra possibile l’iniziativa – il momento di ripensare la Nato e di riprendere il controllo di almeno parte delle sue basi, pensando al contempo a come costruire una nuova alleanza militare delle liberaldemocrazie su scala globale, l’unica adatta alla realtà del mondo odierno. Se le cose procederanno in questa direzione, l’Italia, il suo governo e Meloni saranno posti di fronte a scelte di grande portata, simili per la loro natura a quelle del secondo dopoguerra. Conteranno allora anche le tradizioni ideali e il carattere dei nostri leader politici, a partire dalla premier, che sembra legata sia a una tradizione diciamo così risorgimentale di indipendenza nazionale proiettabile a livello europeo (è quanto fanno pensare i suoi discorsi su Mazzini o le recenti dichiarazioni di altri leader del suo partito o di Fini) che alla nuova ideologia del trumpismo Maga, che ha in Salvini un agitato rappresentante e scegliere non sarà facile, come non lo sarà neanche per Marine Le Pen in Francia come si intuisce dalle sue recenti dichiarazioni sull’Ucraina, e si capisce perché si cerchi di continuare a non farlo, probabilmente maledicendo la situazione.
Come dimostrano le diverse posizioni all’interno del Partito democratico, quelle dei rosso-verdi e di Conte, e quelle delle formazioni centriste, lo stesso vale per un centro-sinistra lacerato da una politica estera il cui peso aumenta sempre di più e potrebbe presto diventare predominante. Se questo accadesse, e sarebbe il segno che l’Europa è viva, potrebbe determinarsi un veloce e anche traumatico riallineamento di fratture e blocchi che convivono oggi all’interno degli stessi partiti e degli stessi schieramenti, e potrebbero ricombinarsi seguendo appunto le linee dettate dalla politica estera e dalle diverse ridefinizioni dell’interesse nazionale italiano. L’importante sarà allora farsi guidare dalla necessità di unirsi sul futuro, senza farsi ostacolare dalle divisioni del passato, ricordando sempre che comunque, se non si riesce a dare più spazio ai giovani, rimettendo in moto la demografia, ogni sforzo sarebbe sì utile, ma di breve respiro.
