
Donald Trump (Ansa)
L'editoriale del direttore
La globalizzazione ci salverà dai Trump
I dazi che minacciano la nostra libertà, i mercati che arginano gli estremisti, la concorrenza che terrorizza i populisti. Gli eccessi di Trump ci ricordano perché per difendere la democrazia ci vuole più globalizzazione, e non meno
Si diceva che doveva mettere in crisi la democrazia, i fatti ci dicono invece che forse la sta salvando: è la globalizzazione, bellezza. La stagione trumpiana, lo sappiamo, ha sconvolto molti equilibri consolidati, ha cambiato le coordinate dei rapporti tra i grandi paesi, ha stravolto la traiettoria di parecchi partiti, ha scombussolato le borse, ha ribaltato l’Europa, ha rimesso in discussione la difesa dell’Ucraina e ha costretto la politica, in tutto il mondo, a fare i conti con una nuova realtà, fatta di certezze che svaniscono, di ideologie che si affumano, di follower che arrancano. Tra i molti sconvolgimenti generati dal trumpismo ce n’è uno poco indagato, ma estremamente interessante, che potremmo far rientrare all’interno degli effetti incredibilmente positivi – ha fatto anche cose giuste – prodotti dal bullismo trumpiano.
Lo sconvolgimento in questione riguarda una consapevolezza improvvisa e inconfessabile maturata tra i nemici del trumpismo, specie in quelli di sinistra, e quella consapevolezza riguarda un’ammissione dolorosa, e per questo indicibile, relativa a due parole spesso tabù per il mondo progressista: il mercato e la globalizzazione. C’è stato un tempo, non molto remoto, in cui il mondo progressista, e non solo quello, ha tentato con disinvoltura di far coincidere la parola mercato con la parola estremismo e la parola globalizzazione con la parola dittatura. E c’è stato un tempo, non molto remoto, in cui il suddetto mondo progressista ha cercato in tutti i modi di creare un’equazione di questo tipo: più la politica sceglierà di farsi dettare vergognosamente l’agenda dai mercati, mostrando così il suo cedimento alla grammatica neoliberista, e più quella politica tenderà a essere inevitabilmente macchiata da una forma di pericolosissimo populismo. Con l’arrivo di Trump, però, l’assioma ridicolo del mercatismo come primo sintomo del populismo è stato stravolto. E come d’incanto, grazie a Trump, e alle sue derive, si è andata ad affermare una verità esattamente opposta, che ha inevitabilmente spiazzato tutti coloro che per anni hanno cercato di creare un parallelismo tra difesa del mercato e difesa del populismo. I
Il primo dato cruciale, naturalmente, riguarda le borse, riguarda Wall Street, riguarda i mercati e non ci vuole molto a capire che oggi l’unico vero check and balance nel mondo trumpiano, per così dire, sono le borse brutte e cattive.
Più Trump giocherà con i dazi, più Trump giocherà con l’economia americana, e più le borse lo puniranno, perché provare a dividere un mondo interconnesso, alimentando guerre commerciali, significa non aver chiaro cosa significhi fare l’interesse della propria economia e dunque del benessere dei propri cittadini. Per il mondo progressista, dover ammettere che l’argine al populismo trumpiano è rappresentato da tutto ciò che le sinistre mondiali hanno descritto per anni come i partner in crime del populismo – mercato e globalizzazione – è doloroso e difficile da accettare (così come in Italia nel 2011 fu doloroso per la sinistra accettare il principio che fosse il mercato l’unico argine contro il berlusconismo). Un elemento di dolore simmetrico, probabilmente, non può non averlo provato, l’internazionale progressista, nelle ore in cui è stata altresì costretta ad ammettere che le ricette anti mercato, come i dazi, come il protezionismo, come tutti i derivati della chiusura, rappresentano un elemento pericoloso, per il benessere del mondo, perché quelle misure sotto sotto non fanno che sfidare la globalizzazione. Si capisce dunque quanto possa essere complicato da accettare per tutti coloro che negli anni hanno considerato la lotta contro la globalizzazione e la lotta contro il mercato come due assiomi intoccabili – e non come due grandi veicoli di promozione del benessere, di lotta contro la povertà, di difesa della democrazia – l’idea che il dogmatismo dei mercati sia foriero di libertà e non di populismo. E si capisce che dolore profondo debba essere riconoscere che per combattere l’estremismo nel mondo, e non solo nel mondo della politica, non serva più stato e meno mercato ma serva semplicemente più mercato e più globalizzazione, per il semplice fatto che le forme più genuine di estremismo, salvo casi rarissimi, di solito nascono da un eccesso di presenza dello stato, non da un eccesso di presenza del mercato.
Al ragionamento, volendo, potrebbe essere aggiunto un corno ulteriore che riguarda paesi come l’Italia in cui il populismo al governo, seppure in una forma meno grave delle attese, esiste, e avrebbe anche qui una leva perfetta per essere smascherato, combattuto e marginalizzato: rispondere al nazionalismo di governo con un’iniezione di libertà provando a mettere a nudo, per esempio, le forme più genuine di populismo meloniano scommettendo sulla globalizzazione, sull’apertura dei mercati e sulla difesa della concorrenza. Nulla di tutto questo accadrà, purtroppo, perché in fondo una parte della sinistra italiana, e forse una parte della sinistra mondiale, detesta i mercati come Trump, detesta la globalizzazione come Trump, detesta la concorrenza come Trump. Eppure la formula perfetta per la difesa della democrazia liberale che ci consegna la stagione dominata dal verbo trumpiano è proprio quella. Più apertura uguale meno populismo. Più protezionismo uguale più oscurantismo. Più competizione uguale meno estremismo. Più mercato uguale più libertà. Per i nemici del liberismo è doloroso ammetterlo ma la verità è qui di fronte a noi: il mercatismo è sinonimo di antifascismo, non di fascismo, e chiunque sogni di combattere il trumpismo deve sperare che in politica si affermi un’agenda un po’ più sensibile alla difesa della globalizzazione. E se l’onda lunga del populismo americano dovesse produrre questo risultato non si farebbe tanta fatica a dover ammettere che anche Trump, in fondo, una cosa buona l’ha fatta: mostrare, attraverso le sue derive, che difendere la globalizzazione e difendere la democrazia non è un ossimoro ma è l’essenza della nostra libertà.

l'economia americana