
Un manichino in una vetrina di Isfahan, Iran, il 19 febbraio 2025 (Foto di Morteza Nikoubazl/NurPhoto tramite Getty Images)
dialoghi aperti
Gli israeliani di origine iraniana che lavorano per informare le vittime del regime
Un’unità speciale delle Idf parla direttamente al popolo iraniano, mentre il futuro dei due paesi si gioca tra diplomazia, crisi economica e speranze di cambiamento. La battaglia delle narrazioni sui social e il sogno di una riconciliazione
Tel Aviv. Nato e cresciuto a Teheran, Beni Sabti, dopo l’instaurazione della Repubblica islamica, nel 1987 lascia l’Iran – come la maggioranza degli ebrei persiani – cercando rifugio in Israele, dove oggi è ricercatore presso l’Inss, Istituto nazionale per Studi sulla sicurezza. Dopo aver prestato servizio nell’esercito specializzandosi in strategie mediatiche per interagire con il popolo iraniano, nel 2018 istituisce un’unità speciale dell’Idf, progettata per rivolgersi direttamente agli iraniani in lingua farsi: “Ancora oggi mi sento sia israeliano sia iraniano”, dice al Foglio. “Questo progetto è sempre stato molto importante per me. Oggi più che mai”.
Dall’inizio del conflitto cominciato a seguito del massacro del 7 ottobre – e da quando Sabti è diventato portavoce ufficiale del governo, per gli affari iraniani – a dirigere l’unità sono il sergente maggiore Kamal Pinhasi e la sergente maggiore Shirly Shamsian: entrambi nati in Iran e trasferitisi in Israele dopo la Rivoluzione. Come Sabti, sognano un giorno di poter tornare a visitare i luoghi della propria infanzia. Ma oggi il loro obiettivo è raggiungere il pubblico iraniano tramite i social e raccontargli la guerra vista attraverso gli occhi degli israeliani.
Lavorano soprattutto tramite X, Instagram e TikTok e una volta alla settimana tengono una conversazione in diretta con i follower iraniani: 206.000 su Instagram e 100 mila su TikTok. Numeri consistenti, considerando che la Repubblica islamica blocca tutti i social stranieri, cosicché i loro follower sono costretti ad aggirare il regime agendo da hacker: “Gli iraniani sono profondamente interessati a comprendere la guerra contro Israele”, spiega Pinhasi, “anche perché si tratta dei soldi che escono dalle loro tasche per finanziare le milizie per procura. Quando parliamo loro degli Houthi, di Hamas, di Hezbollah, ci chiedono esplicitamente: ‘Quando taglierete la testa alla piovra?’. E noi ricordiamo loro che i nostri due popoli hanno una storia comune che risale a 2.500 anni fa e che i soldi che il regime spende per la guerra contro di noi potrebbero, invece, migliorare la situazione economica del paese”.
“Cerchiamo di spiegargli le dinamiche del terrorismo internazionale”, aggiunge Shamsian. “Non stiamo cercando di instaurare una rivoluzione. Perché ciò può avvenire solo dall’interno, da parte dei cittadini. Non è parte del nostro lavoro”. Come conferma Alex Grinberg – israeliano di origine russa, ex comandante nel dipartimento di ricerca dell’intelligence dell’Idf, esperto di Iran – nessuna forza esterna può innescare una rivoluzione, perché il concetto stesso implica un movimento che deve nascere dall’interno, solitamente da parte dell’élite: “La maggior parte degli iraniani non sostiene il regime che ha innescato questa guerra contro Israele. Eppure, volendo paragonare la società totalitaria iraniana a quella russa – da cui provengo – posso affermare che il popolo iraniano non si sente ancora pronto per una rivoluzione, perché, pur essendo contrari al regime, la maggioranza tende a adattarvisi, anche solo per non correre il rischio di finire in carcere, e perdere la propria la famiglia”. Secondo Hagai Amit – tra i colonnisti del settimanale economico The Marker, edito da Haarezt – non va sottovalutata la crisi economica in cui l’Iran si trova da tempo: “In questo momento la nuova Amministrazione Trump sta cercando di trovare un accordo con le autorità iraniane, che certamente non aiuterà ad accelerare una possibile rivoluzione, ma aiuterà gli iraniani a sopravvivere alla crisi e questo, nel lungo periodo, potrebbe avere effetti positivi nel consolidare la fiducia tra il popolo iraniano e chi sta cercano di ridefinire i nuovi equilibri regionali”.
Torniamo a Sabti a cui chiediamo come vede il futuro tra i due paesi che fanno parte della sua identità scissa: “Uno dei problemi principali delle proteste in Iran – ormai costanti dal 2016 – sta nel fatto che non sono strutturate: mancano leader, sia politici sia militari. Forse, anche per questo, l’Amministrazione americana sta cercando una mediazione. Potrebbe trattarsi di una strategia per scendere a patti con il regime al momento più opportuno. Non bisogna mai dimenticare”, ricorda l’analista, “che la mentalità iraniana è molto differente dalla nostra. In medio oriente tutto procede lentamente, per tappe, rispettando il codice d’onore, per le stesse ragioni per cui l’Iran non poteva non attaccare direttamente Israele – pur, di fatto, non avendo causato alcun morto – per il solo scopo di confermare la propria reputazione. E’ quindi possibile ipotizzare che anche Trump stia provando a usare il loro stesso linguaggio, ben sapendo che i più grandi cambiamenti, in quest’area, accadono sottobanco, e hanno bisogno del giusto tempo per maturare. Anche se i nuovi tentativi di mediazione sembrano azzardati potrebbero, col senno di poi, dimostrarsi una strategia vincente”.