Il presidente degli Stati Uniti James Polk in una illustrazione del 1848 (via Wikimedia Commons)

Trump ha voluto il ritratto di James Polk, il presidente che ha espanso l'America più di tutti

Giulio Silvano

The Donald ha appeso alla Casa Bianca il quadro raffigurante l'undicesimo presidente americano. Una scelta che è un messaggio: il sogno di un’America sempre più grande anche geograficamente

Donald Trump ama decorare i suoi spazi soprattutto con copertine di riviste – vere o false – con la sua faccia. Ma di recente ha messo gli occhi su un vero quadro, una tela appesa dentro al Campidoglio. E così, da businessman qual è o quale si sente, ha proposto allo speaker repubblicano Mike Johnson di darglielo in cambio di un ritratto presente alla Casa Bianca raffigurante Thomas Jefferson, terzo presidente statunitense, reinassance man e bibliofilo appassionato, così lontano dallo stile del tycoon. In cambio della tela con la faccia di Jefferson, Trump ha voluto quella che raffigura James Polk, undicesimo presidente degli Stati Uniti. Non è la prima volta che Trump, quasi come un hipster che cerca di riportare in auge una band sconosciuta, si innamora di un suo predecessore non così famoso. Prima c’è stato James McKinley che, secondo Trump “ha reso il paese ricco grazie ai dazi e al talento. Era un businessman naturale” e a fine Ottocento ha espanso i territori statunitensi prendendosi Guam, Portorico e le Hawaii, rendendo Cuba un protettorato e arrivando fino alle Filippine. E adesso c’è Polk, tra l’altro un democratico. Il motivo della cotta politica però è simile, cioè l’espansionismo, il sogno di un’America sempre più grande anche geograficamente. Make America Great Again nel senso vero del termine. Polk vinse le primarie democratiche con una campagna aggressiva e il desiderio di liberarsi di così tanta presenza “straniera” nel nuovo continente, tra spagnoli e messicani.

   

“Si è preso un sacco di terra”, avrebbe detto Trump ammirando il ritratto dell’undicesimo presidente una volta appeso nello Studio ovale. Polk, in carica dal 1845 al 1849, infatti è responsabile delle acquisizioni e le conquiste di California, Texas e di quelli che allora venivano chiamati territori dell’Oregon (più o meno Oregon, Washington e Idaho). Ma anche, di gran parte del sud est, cioè Nevada, New Mexico, Arizona e Utah. Polk nei suoi quattro anni di presidenza ha quasi raddoppiato il territorio nazionale, e ha permesso agli Stati Uniti di avere l’accesso al Pacifico. A gennaio, prima che Trump chiedesse a Johnson di fare scambio di quadri, Rich Lowry sulla rivista conservatrice National Review si chiedeva: “Trump è il nuovo James Polk?”, ricordando come il democratico avesse “aggiunto più di un milione di miglia quadrate al territorio statunitense, rendendolo il presidente più di successo ma non celebrato all’interno del pantheon americano”. Quasi con spirito revisionista, Trump sta proponendo un nuovo Mount Rushmore, dove McKinley scalza Washington e Polk scalza Jefferson.

   

Se il Texas, allora repubblica indipendente, fu annesso su richiesta formale di Polk, alcune terre del sud est furono acquistate per 15 milioni di dollari alla fine della guerra contro il Messico, che durò per quasi due anni fino al 1848. E poi, altro pallino di Trump, Polk fu anche in grado di assicurare una maggiore influenza sull’istmo di Panama in chiave antibritannica – che portò poi piano piano alla costruzione del tanto ambito canale. Si capisce quindi, nella sua nuova crociata imperialista, il perché di tanta ammirazione nei confronti di Polk, che Trump ha definito come modello di “destino manifesto”, cioè la base morale dell’espansionismo americano, in quanto portatore di libertà e democrazia nel mondo, la cui crescita non può essere fermata se non, appunto, dal destino. Oggi gli obiettivi, esplicitati più volte tra Truth Social e conferenze stampa, sono la Groenlandia e il Canada, oltre al controllo su Panama. Sul sito di Trump si vendono i cappellini Maga con scritto “Make Greenland Great Again”. Da immobiliarista a conquistadores, come se acquisire il Canada equivalesse a comprare un pezzo di Fifth Avenue dove costruire una torre col proprio nome. Quello che inizialmente sembrava quasi uno scherzo – proporre di invadere o acquisire territori di alleati storici – è diventato il nuovo obiettivo del Trump imperialista bulimico. Come ha scritto il Wall Street Journal, “espandere il territorio statunitense è parte della visione di una nuova ‘età dell’oro’ promessa da Trump per il suo secondo mandato, che secondo lui ripristinerà il dominio americano all’estero dando inizio a un nuovo periodo di prosperità domestica”.

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