Per un'Europa che ce la fa

Paola Peduzzi

Donald Trump è ossessionato dai free riders ma dimentica il suo interesse a guidare l’autobus. L’Europa può ricordarglielo, ha molte leve per farlo, ma non deve farsi illusioni. Consigli per un divorzio dall’ostilità contenuta

Nella primavera del 1938, Thomas Mann girò gli Stati Uniti tenendo un discorso che si intitolava “The Coming Victory of Democracy”, che poco dopo divenne un libro pubblicato da Alfred Knopf, raccomandato dalla first lady Eleanor Roosevelt: vendette tra il 1938 e il 1939 venticinquemila copie. Mentre Mann raccontava agli americani che “la democrazia non è un possesso acquisito, ha dei nemici che la minacciano da dentro e da fuori”, Hitler annetteva l’Austria, il primo passo del Grande Reich, e lo stesso autore, che era stato un sostenitore della Repubblica di Weimar, ammetteva: “Non è facile parlare di una vittoria imminente della democrazia quando la brutalità aggressiva del fascismo sembra trionfare dolorosamente”. Ma allo stesso tempo Mann pensava – ed è questo pensiero a rendere quel tour e quel libro  attuali – che fosse urgente difendere la democrazia nel momento in cui essa era tanto fragile: “The Coming Victory of Democracy” permette di ricordarci innanzitutto perché l’America e poi anche l’Europa si sono imbarcate nel progetto liberale della democrazia, oltre che, come diceva Mann vedendo la sua Europa inghiottita dal totalitarismo, darsi rifugio: “Molti europei si rincontreranno ancora sul territorio americano”, ed era una promessa rassicurante.

 

Oggi quel progetto sembra spezzato, c’è chi dice che l’epoca del mutuo sostegno tra liberali sia finito, travolto da un’America irriconoscibile che ha fiducia nei nemici e che vuole farsi ridare i soldi spesi per difendere gli amici: ogni volta che Donald Trump parla nel salottino giallo dello Studio ovale con i suoi ospiti europei – comparse o vittime, a seconda dei casi – ripete che gli alleati si sono sempre comportati male, si sono approfittati dell’America e ora dovranno restituire il maltolto. Ma, come ha scritto di recente sul Financial Times Joseph Nye, l’inventore del concetto di “soft power”, “Trump è così ossessionato dal problema dei free riders che si dimentica che è sempre stato nell’interesse dell’America guidare l’autobus”.

 

Questo è il punto di inizio per la risposta dell’Europa alle pretese di Trump, alle sue minacce: più che schierarsi con chi vuole rispondere all’America con la stessa brutalità o con chi non vuole spezzare i legami transatlantici, è necessario non negare la realtà – l’America non è più l’America degli ultimi 80 anni – e ricordarsi che l’interesse americano non è del tutto tutelato se svilisce l’interesse europeo.

 

L’Economist in edicola dedica il suo approfondimento settimanale al divorzio in corso tra le due sponde dell’Atlantico e inizia sottolineando il fatto che nonostante la Commissione europea abbia annunciato “misure straordinarie per tempi straordinari”, per ora la reazione all’aggressività commerciale americana, unita alla legittimazione della Russia a discapito dell’Ucraina e quindi dell’Europa, è del tutto ordinaria. Ma se la separazione dovesse farsi arcigna, come sembra, gli europei hanno “un numero sorprendente di modi per fare pressione sul suo alleato capriccioso”, scrive il magazine britannico, elencandoli. L’asset geopolitico più ovvio è la dimensione del mercato europeo: con il Regno Unito, la Norvegia e la Svizzera, il pil raggiunge i 24,5 trilioni di dollari, quasi quanto i 29 trilioni dell’America: le aziende americane hanno tutto l’interesse di continuare a fare affari con un mercato tanto grande. E’ questa la premessa dei controdazi europei, che però hanno il problema (lo stesso che hanno gli americani, ma che Trump nega) di essere un costo anche per i consumatori europei oltre che per gli esportatori americani. Lo dimostra il prodotto americano più importato dagli europei: l’energia, metà del Gnl prodotto dall’America è arrivato in Europa; il 35 per cento delle esportazioni di greggio e di petrolio raffinato dell’America è per l’Europa. Ma naturalmente l’Europa non può sostituire questo bene. Per questo l’Economist dice che un obiettivo più plausibile sarebbe il big tech: “L’Europa può probabilmente fare a meno di Instagram, ma Meta, per dire, sarebbe colpita grandemente dalla perdita del mercato europeo”. Questo è lo scenario estremo, e gli europei probabilmente scenderebbero coi forconi in piazza se si vedessero togliere il diritto a Instagram, ma ci sono altri modi per rendere la vita dei colossi tecnologici un po’ più difficile, “incluse tassazioni e politiche di competitività”, che possono “calibrare il tormento inflitto, se necessario”.

 

Lo stesso vale per il settore dei servizi: l’America esporta 100 miliardi di euro in più verso l’Europa rispetto alle esportazioni europee, cioè è il contrario del commercio di beni, nel quale l’Europa aveva, l’anno scorso, un surplus di 200 miliardi di euro (fa eccezione il Regno Unito, dove la situazione è inversa). “In più, il peso del mercato europeo non è la sua unica leva economica: può anche contenere l’accesso americano a beni e servizi in cui ha un dominio”, scrive l’Economist, che porta l’esempio della società Asml, con sede nei Paesi Bassi, che è l’unica azienda al mondo che fa device che possono produrre i chip di sette nanometri o meno, quelli indispensabili per l’intelligenza artificiale (nei chip un po’ più grossi, da 14 nanometri, ha il 90 per cento del mercato). Nel 2023, il governo olandese ha impedito ad Asml di vendere i suoi prodotti sofisticati alla Cina, ma certo fare la stessa cosa con l’America sarebbe senza precedenti, e manomettere la catena di approvvigionamento dei semiconduttori è sempre un danno collettivo.

 

L’articolo dell’Economist procede con altri “choking point” possibili, in particolare nel settore della difesa, dove la dipendenza dall’America è assoluta, ma in cui ci sono delle nicchie dove il rapporto di forza s’inverte, per esempio la protezione del “big beautiful ocean”, come dice Trump, che ci divide dagli americani e che loro non possono difendere senza il nostro aiuto. E’ necessario però trovare il punto in cui utilizzare le leve europee senza portare a un collasso delle relazioni transatlantiche: è per questo che la risposta europea deve essere coordinata e ponderata, perché i modi per reagire esistono, vanno scelti quelli meno controproducenti. Senza farsi illusioni su Trump, ma semmai considerando che anche l’autista dell’autobus occidentale ha un interesse a stare alla guida. Thomas Mann, nel suo tour, diceva che la “democrazia è un pensiero, ma è un pensiero collegato con la vita e con l’azione”, ed è per questo che era convinto che avrebbe trovato il modo di rinnovarsi, anche in mezzo ai divorzi e alle autocrazie.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi