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Non solo Trump. L'epurazione dei generali tra Cina e Russia

Siegmund Ginzberg

Il presidente americano fa saltare i capi delle Forze armate americane, come gli autocrati di ogni tempo. Xi, Putin e Zelensky hanno rimosso ufficiali scomodi per consolidare il potere. La storia mostra che pratiche simili, da Stalin a Hitler, possono rafforzare un regime ma anche indebolirne l’esercito

Quando aumenta l’entropia, aumentano complessità e disordine. I subitanei mutamenti di priorità e alleanze lasciano tutti frastornati, e cadono le teste dei generali. E’ come il secondo principio della termodinamica di Newton. Sembra avere valore universale. In America, Donald Trump ha cominciato il suo repulisti al vertice delle istituzioni licenziando su due piedi il capo dello stato maggiore congiunto, Charles Q. Brown Jr., il capo delle operazioni navali, ammiraglio Lisa Franchetti, il vice capo di stato maggiore dell’Air Force, James C. Slife. Già che c’era, ha fatto licenziare i tre generali giudici avvocati (Jag) delle tre armi, il generale Joseph B. Berger III dell’US Army, il generale Charles Plummer dell’Air Force, il contrammiraglio Lia M. Reynolds dell’Us Navy. E il primo sovrintendente nero del Virginia Military Institute, generale Cedric T. Wins. C’è chi dice che è solo l’inizio di un’epurazione più estesa.

 

Lincoln rimuoveva a tutt’andare i suoi generali, ma era durante la Guerra civile. Truman licenziò MacArthur, che voleva usare l’atomica in Corea


Non sono state date spiegazioni. Nella sua qualità di capo supremo delle Forze armate, il presidente può rimuovere, sostituire, promuovere chi gli pare e quando gli pare. L’hanno fatto tutti i presidenti. Lincoln rimuoveva a tutt’andare i suoi generali. Ma era durante la Guerra civile. Sostituiva quelli che perdevano le battaglie. Truman licenziò MacArthur perché il generale voleva usare l’atomica in Corea. Obama licenziò il comandante delle forze americane in Afghanistan, David McKiernan, e poi anche il successore, Stanley McChrystal, dopo che questo aveva espresso giudizi non graditi sul presidente in un’intervista a Rolling Stone. Il generale James Mattis si era dimesso da segretario alla Difesa dopo che Trump, durante la sua prima presidenza, aveva abbandonato gli alleati curdi e ordinato un parziale ritiro dalla Siria. Poi Donald si era scontrato col successore da lui nominato, Mark Esper, quando questi aveva pubblicamente contestato il ricorso all’Insurrection Act, che consente al presidente di usare l’esercito per imporre l’ordine nelle città americane, e si era rifiutato di far sparare sui manifestanti davanti alla Casa Bianca. “Non potreste sparargli alle gambe o qualcosa del genere?”, avrebbe detto il presidente in una tempestosa riunione nell’ufficio ovale. Ma la bestia nera di Trump è il generale Mark Milley, da lui nominato capo dello stato maggiore congiunto nel primo mandato. Disse che andava fucilato per alto tradimento perché aveva chiamato il suo omologo cinese, per smentire che gli Stati Uniti stessero pianificando un attacco nucleare alla Cina, cosa di cui pare Pechino fosse convinta in quel momento.


I rapporti tra i presidenti in carica e le forze armate sono sempre stati complicati. Così come, probabilmente, quelli con la Cia e l’Fbi. I militari – noblesse oblige – vogliono sempre più soldi per la Difesa. Ma in genere non vogliono fare le guerre. Perché sanno che rischiano di perderle. Non vogliono rischi, si sa quando si comincia ma non si sa bene dove si va a finire. Non vogliono fare brutte figure, che sono deleterie alla deterrenza. Non sono felloni, sono dissidenti. Il Pentagono aveva opposto resistenza anche a Biden, sulla linea in Ucraina. Basterebbe un’analisi semantica delle rispettive dichiarazioni. Hanno frenato quando si rischiava un’escalation. Si sono opposti all’invio di armi sofisticate, in particolare di aerei e di missili a lunga gittata, capaci di colpire in profondità in territorio russo. C’è chi ha ad un certo punto parlato addirittura di ammutinamento. Credo si tratti di esagerazioni. 

 

Per quanto ci siano sempre state frizioni, negli Stati Uniti alla fine decide sempre il presidente, non i militari. E’ la tesi di Huntington


Eisenhower era un militare, vittorioso nella Seconda guerra mondiale. Alla fine del suo mandato, nel 1961, aveva denunciato il “complesso militare-industriale”. Biden all’uscita dalla Casa Bianca, richiamandosi al precedente, ha denunciato il complesso “tecnologico-militare”. Ma, per quanto ci siano sempre state frizioni, scontri di personalità, gli Stati Uniti non hanno mai avuto tradizioni, come dire, golpiste. Alla fine decide sempre il presidente, un civile, non i militari, né i potentati economici connessi. E’ la tesi di un libro ormai classico di Samuel Huntington (quello che teorizzò il “conflitto di civiltà”): The Soldier and the State. The Theory and Politics of Civil-Military Relations. Finora almeno. Ma Trump è una pagina nuova. Che potrebbe riservare sorprese anche su questo. 

In Cina, il segreto su quel che riguarda i militari e il potere è assoluto. E’ l’impero dei simboli. Ed è ai simboli, a quel poco che traspare nei simboli, che bisogna affidarsi per cercare di decifrare i geroglifici. Chi c’è e chi non c’è, quanto lo si vede quando c’è, è uno dei criteri ermeneutici a disposizione. Devo a un collega della Nikkei, che ha fatto sette anni da corrispondente in Cina – quanti i miei, a suo tempo – questa osservazione: al gran gala per i veterani del 17 gennaio scorso, promosso dalla Commissione militare centrale, e trasmesso in tv, per vedere Xi Jinping in mezzo agli altri maggiorenti in divisa bisognava aguzzare gli lo sguardo, come facevano i miei figli da bambini sugli album di Dov’è Waldo?. Lo si vedeva in prima fila, ma con accanto tutti gli altri. L’anno prima, era stato invece tutto primi piani, continue zoomate su Xi. Stavolta un solo zoom, alla fine, quando lo si vede applaudire la troupe di ballo dell’esercito. Un solo primo piano, come un’aggiunta, quasi una dissolvenza. Quasi come se fino a quel momento nemmeno ci fosse, un apparire di sfuggita, per non apparire troppo. 


L’anno prima era stato il trionfo del culto della personalità, come ai vecchi tempi. Ora, profilo assai più basso. In Cina i simboli non vengono mai buttati lì per caso, per distrazione. Sono l’anima dei rapporti di potere. Che qualcosa stesse cambiando lo si era avvertito già a dicembre, quando il giornale del Comando di teatro centrale dell’Esercito popolare aveva pubblicato il resoconto di una sessione di studio del suo 83esimo Gruppo di armate. Era accompagnato da una foto che mostrava uno striscione di 16 caratteri che riassumevano l’obiettivo della sessione: leadership collettiva, centralismo democratico, consultazioni individuali, decisione mediante riunioni. La notizia della sessione era stata ripresa, qualche giorno dopo, dal quotidiano ufficiale delle forze armate. Col titolo: “In prima fila nel sostenere la leadership collettiva”. Decisioni collettive, non un capo che comanda e tutti gli altri che obbediscono ciecamente. Significativo che la sessione si tenesse a Yenan, la base rivoluzionaria nel centro dello Shaanxi da cui era partita la conquista di tutta la Cina da parte di Mao. Significativo anche che Xi Jinping non ci fosse. Solo segnali. Xi risulta sempre saldo in sella.

 

Xi Jinping ha destituito e sostituito più capi militari dei suoi predecessori. L’ha fatto quietamente, non in modo sanguinario come faceva Mao

 

Ma la politica cinese è fatta di segnali. Xi Jinping ha destituito e sostituito più capi militari dei suoi predecessori. L’ha fatto quietamente, non in modo sanguinario come faceva Mao. In Cina, dove, come disse Mao, la rivoluzione “nasce dalla canna del fucile”, politica e apparato militare sono strettamente intrecciati. Il potere del presidente e del capo del Partito poggia sul fatto che è anche il presidente della Commissione militare. Le spese militari sono aumentate del 40 per cento, una percentuale che rispetto al prodotto lordo non è mai stata così elevata. L’Esercito popolare di liberazione è un conglomerato che si occupa di tutto, non solo della difesa e dell’ordine pubblico ma anche dell’industria, del commercio, delle infrastrutture, della scienza, dello spazio, dell’intelligenza artificiale. Eppure, nella cosiddetta “doppia sessione” (dell’Assemblea nazionale del popolo, e del massimo organo consultivo politico, il Comitato nazionale della Conferenza consultiva politica del popolo cinese), che è in corso in questi giorni a Pechino, la presenza dei militari non è mai stata così ridimensionata. Perché sono stati decimati. Mancano oltre 14 altissimi ufficiali che sono stati puniti ed epurati. 


Le ultime campagne contro la corruzione di Xi hanno portato al licenziamento, in rapida successione, di ben due ministri della Difesa, Wei Fenghe e Li Shangfu. Li prima di diventare ministro della Difesa era il capo delle forze missilistiche, compresi i missili a testata nucleare. Era corsa voce che fosse inquisito per “corruzione” anche l’attuale ministro, l’ammiraglio Dong Jun. Decimati anche diversi loro vice e molti responsabili degli appalti militari nelle province. Gli epurati includono ben due dei sei membri della Commissione militare, compreso, giusto lo scorso novembre, il potentissimo ammiraglio Miao Hua, supervisore del lavoro organizzativo e politico nelle forze armate, fino a quel momento considerato l’alter ego di Xi. Di non molti giorni fa è l’annuncio della messa sotto inchiesta di Tan Ruisong, presidente della Avic (Aviation Industry Corporation of China), gigante industriale mondiale, che è uno dei principali produttori di aerei e appaltatori della Difesa cinese. L’accusa: “Viveva sulle spalle del settore militare”. Corruzione, per la precisione “violazioni della disciplina di partito”, è l’accusa classica con cui si rimuovono i massimi dirigenti sospetti di remare contro, dissentire o di far ombra al numero uno. Funziona così. E’ successo per tutta la tenuta di Xi, e prima di lui. Ma ultimamente il ritmo sembra essersi accelerato. Mao aveva eliminato, spesso anche fisicamente, tutti i capi militari che avevano contribuito a portarlo al potere, o erano sospetti di volersi sostituire a lui. Fece fuori quasi tutti i dieci marescialli, i capi delle diverse armate che costituivano l’Esercito popolare di liberazione, e sconfissero, accerchiandolo, Chiang Kai-shek. Compreso alla fine Lin Piao, quello che lo aveva aiutato, nella Rivoluzione culturale, a eliminare gli altri. 


I militari ai massimi livelli non sono i soli epurati. Secondo le statistiche ufficiali, è stato rimosso, o non si è più visto a riunioni e occasioni importanti (il che equivale in pratica alla rimozione) un membro su dieci tra i 205 del Comitato centrale eletto al Congresso del Pcc in cui Xi, due anni fa, aveva conseguito il terzo mandato, per giunta a vita. Decimazione quindi non è solo un modo di dire. Ma la decimazione del proprio esercito è sempre un’arma a doppio taglio. Problemi coi propri militari, non è un mistero, li ha anche Zelensky. Zhaluzhny, capo delle forze armate ucraine al momento dell’invasione russa, era stato sostituito sbrigativamente da Zelensky quando era al colmo della popolarità, e spedito a fare l’ambasciatore a Londra. La decisione, improvvisa e piuttosto opaca, era stata giustificata con la volontà di dar vita a una riforma strutturale delle forze armate di Kyiv a fronte di sfide ulteriori. Era stato sostituito a capo dello stato maggiore dal meno popolare generale Oleksandr Syrsky, russo di nascita e già capo dell’esercito. Zhaluzhny era stato definito come “eroe” e come “il salvatore dell’Ucraina”, in quanto artefice della strategia che aveva contribuito a far fallire l’iniziale avanzata verso Kyiv dei reparti di Mosca subito dopo l’avvio dell’invasione su vasta scala del febbraio 2022. Ora si dice che su di lui ricada la preferenza americana per sostituire Zelensky, ormai inviso a Trump.

 

A Mosca la cosa sorprendente è che abbia continuato a restare al suo posto il capo di stato maggiore Gerasimov. Pesa la fedeltà assoluta a Putin


Problemi con i propri capi militari li ha anche Putin. Aveva sostituito, uno dopo l’altro, i comandanti dell’“operazione speciale” in Ucraina, colpevoli di aver subìto umilianti sconfitte, e di essersi arricchiti sulla pelle dei propri soldati. Alcuni, compresi il duro Dvornikov e l’ancor più duro Surovikin, soprannominato “il macellaio della Siria” per la brutalità con cui aveva mantenuto al potere Bashar el Assad, erano durati pochissimo. Clamorosa la rottura con Prigozhin, l’ex cuoco del Cremlino e capo della Wagner, che finì col marciare contro Mosca e poi fu abbattuto col suo aereo. La cosa sorprendente semmai è che abbia continuato a restare al suo posto il capo di stato maggiore Gerasimov, che è ora anche il supervisore delle operazioni in Ucraina. Il sospetto è che più delle sue capacità e prodezze militari abbia pesato la fedeltà assoluta a Putin. Nel giugno 1937 Stalin aveva fatto arrestare e fucilare il maresciallo Tuchacevskij, il suo leader militare più prestigioso. Fu fucilata anche la moglie. Figli, fratelli, sorelle e nipoti furono dispersi nel Gulag o negli orfanotrofi. L’accusa era tradimento e spionaggio a favore della Germania e del Giappone. Era fasulla, non ci fu alcun processo. Un’ipotesi è che fosse basata su documenti falsi fabbricati dai tedeschi. Un’altra è che fosse divenuto ingombrante per Stalin. Circolò voce che meditasse un colpo di stato. Ma non ci sono elementi a sostegno. Nel 1957 sarebbe stato riabilitato da Kruscev, ma circostanze e motivazioni delle accuse non sono state mai chiarite. Un’altra ipotesi ancora è che fosse contrario al patto di non aggressione con Hitler. Con Tuchacevskij fu decapitato l’intero vertice dell’Armata rossa. Furono eliminati il capo di stato maggiore, tre marescialli su cinque, i comandanti dell’aeronautica, dell’esercito, dell’artiglieria, delle forze corazzate, 60 dei 67 comandanti di corpo d’armata, 136 dei 199 comandanti di divisione.  Nel corso di un biennio furono uccisi o imprigionati il 90 per cento dei generali, l’80 per cento dei colonnelli, sparirono 36.000 ufficiali. Non in guerra. L’invasione nazista sarebbe venuta solo dopo. Forse non ci sarebbe neanche stata se Hitler non fosse stato convinto di trovarsi dinanzi un esercito catastroficamente impreparato.  


Anche Hitler si era liberato senza troppi complimenti dei generali dissenzienti, o che gli facevano ombra. Sostituendoli con personalità più scialbe, meno capaci, più malleabili e, soprattutto, incapaci di dissentire. Il ministro della guerra Werner von Blomberg fu destituito con la scusa che aveva sposato una ex entraineuse, il suo successore in pectore, Werner von Fritsch, ripescando vecchi dossier che lo indicavano (pare falsamente) omosessuale. Erano oppositori delle guerre di conquista, come lo era il generale Ludwig Beck, il vero capo del “complotto di luglio” (1944), quello in cui il colonnello von Stauffenberg avrebbe cercato di uccidere Hitler piazzando una bomba nella sua “tana del lupo”. I congiurati vennero uccisi, le loro famiglie mandate nei lager. Così come, nella “notte dei lunghi coltelli”, le SS avevano ucciso il generale Kurt von Schleicher, predecessore di Hitler alla cancelleria, e l’intera famiglia. Ma per lo più Hitler i suoi generali preferiva corromperli con cariche e prebende. Così come fece coi giudici.