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Il consiglio europeo

I volenterosi del riarmo europeo si assottigliano, ma c'è un nucleo forte

David Carretta

Orbán a parte, si moltiplicano gli scettici sul piano di von der Leyen. Così emergono nuove coalizioni: il nocciolo duro sono i paesi della vecchia Lega Anseatica. Le conclusioni del vertice

Bruxelles. “L’Europa non deve accettare che un uomo a Mosca definisca il futuro dell’Unione europea o della Nato. Se lo facciamo, abbiamo già perso. E poi è finita”, ha detto ieri il primo ministro della Danimarca, Mette Frederiksen, prima del Consiglio europeo. I capi di stato e di governo dell’Ue hanno discusso nuovamente del sostegno all’Ucraina e del piano di riarmo presentato da Ursula von der Leyen. A parole l’Ue si muove per prendere in mano il proprio destino di fronte alla minaccia posta dalla Russia di Vladimir Putin e dal disimpegno degli Stati Uniti sotto Donald Trump. Nei fatti l’Europa è divisa in due tra i paesi che considerano la minaccia esistenziale e quelli che non la considerano reale. L’Ue ha raggiunto il suo limite perché i 27 non condividono lo stesso pensiero strategico e la percezione della minaccia. In Europa emergono coalizioni di volenterosi. Il nocciolo duro sono i paesi della vecchia Lega Anseatica, l’alleanza commerciale che sette secoli fa si sviluppò dai Paesi Bassi fino ai paesi baltici. La Francia di Emmanuel Macron, la Germania di Friedrich Merz e il Regno Unito di Keir Starmer sono le potenze che determineranno se l’Europa sarà all’altezza. 

La Danimarca è esemplare dell’attitudine della Lega Anseatica di fronte al conflitto in Ucraina e alla minaccia posta dalla Russia. E’ anche vittima delle prepotenze di Donald Trump, che rivendica di voler prendere la Groenlandia “in un modo o nell’altro”. Frederiksen, premier socialista di un paese frugale tradizionalmente scettico nei confronti dell’Ue, ha rotto tutti i tabù sull’Europa. Dopo l’aggressione dell’Ucraina ha organizzato un referendum per abbandonare l’opt-out (l’auto esclusione) dalla politica di sicurezza comune dell’Ue. Si è detta favorevole alla possibilità di creare un nuovo strumento di debito comune per finanziare la difesa. Nel frattempo ha stanziato quasi 7 miliardi di euro di aiuti militari per Kyiv per il periodo 2023-28 e ha finanziato l’industria della difesa ucraina. Il 19 febbraio, alla vigilia dell’insediamento di Trump, Frederiksen ha annunciato che la Danimarca spenderà altri 6,7 miliardi di euro in due anni per la difesa per superare il 3 per cento del pil. La Finlandia e la Svezia, altri due paesi frugali, hanno seguito lo stesso percorso, entrando nella Nato, dicendosi disponibili a discutere di debito comune dell’Ue per la difesa e aumentando in modo consistente le spese militari. La Polonia quest’anno si avvicinerà al 5 per cento del pil di spesa per la difesa. La Lettonia ha fissato l’obiettivo del 4 per cento il prossimo anno. Estonia e Lituania vorrebbero arrivare al 6 per cento. I Paesi Bassi rimangono frugali e si oppongono al debito comune, ma puntano al 3,5 per cento.

La svolta per l’Ue e il suo piano di riarmo è arrivata dalla Germania. Ursula von der Leyen ha annunciato la sua proposta da 800 miliardi di euro (attraverso debito nazionale e prestiti ai governi) dopo la vittoria di Friedrich Merz alle elezioni. Martedì il futuro cancelliere è riuscito a far votare al Bundestag la riforma del freno al debito contenuta nella Costituzione (la Legge fondamentale), che in teoria permette una spesa illimitata nella difesa. A Bruxelles l’ambasciatore tedesco ha già chiesto di modificare, e non solo sospendere, le regole del Patto di stabilità e crescita per tenere conto dell’aumento strutturali degli stanziamenti militari. Anche Berlino si è convinta che è arrivato il momento di fare sul serio e in fretta. L’ombrello di sicurezza americano non è più assicurato e “abbiamo informazioni di intelligence che la Russia testerà la nostra prontezza a rispondere in 3-5 anni”, spiega una fonte europea. La Francia può avere motivazioni e un pensiero strategico diversi. Ogni mossa di Emmanuel Macron viene guardata alla luce della nostalgia gaullista. Ma c’è una convergenza di interessi con la Lega Anseatica e con l’idea di Merz di una “nuova Comunità europea di difesa”. Il Regno Unito, per la sua storia, la sua forza militare e il suo deterrente nucleare, ne è chiamato a farne parte. Starmer ha assunto un ruolo di leadership insieme a Macron sulle garanzie di sicurezza per l’Ucraina.

Nel Consiglio europeo si ieri sono state approvate una dichiarazione a 26 (senza l’Ungheria) sull’Ucraina e conclusioni a 27 (con Viktor Orbán) sul piano di riarmo e sul Libro Bianco per la difesa di von der Leyen. Ma, al di là delle posizioni ungheresi, c’è un gruppo di paesi – guidati da leader ideologicamente diversi tra loro – che non sono pronti a cambiare. L’Italia di Giorgia Meloni “improvvisamente è diventata frugale quando si parla di spese per la difesa”, dice un diplomatico. La presidente del Consiglio ieri ha ribadito che preferirebbe coinvolgere gli investimenti privati. “Chi compra i sistemi di armamenti se non gli stati?”, risponde il diplomatico. Meloni ha aperto alla creazione di uno strumento di debito comune dell’Ue per la difesa, per non pesare direttamente sui bilanci nazionali, ma poi dovrebbe accettare il principio che gran parte dei fondi dovrebbe finire ai paesi più vicini alla Russia. Il primo ministro spagnolo, il socialista Pedro Sánchez, vuole che i finanziamenti per la difesa vadano agli investimenti per il cyberspazio e i cambiamenti climatici. “E’ una richiesta ridicola”, dice il diplomatico. Ieri Sánchez ha detto di essere contrario al nome “Rearm” per il piano di von der Leyen, esattamente come Meloni. Per ragioni politiche interne e culturali, e con i loro livelli di debito pubblico, Spagna e Italia non sono disposte a sacrificare una minima parte del loro welfare per la difesa. Senza i governi che rappresentano un quarto dei suoi cittadini, l’Ue non può muoversi, a prescindere dai veti di Orbán. Restano le coalizioni.
 

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