Jeff Bezos (foto LaPresse)

La vita nuova di Jeff Bezos, da fervente antitrumpiano a adulatore del presidente

Michele Masneri

Il suo Washington Post silenziato e addomesticato, mentre è pronto per Amazon Prime Video un documentario su Melania Trump da 40 milioni 

Anche a voi è successo? Di fronte al rinnovo di Prime, quella voglia di disdire, quel leggero languorino di non finanziare più il calvo palestrato con la sua fidanzata-simil wonder woman. Se l’idea di boicottare prodotti americani e nello specifico Amazon è venuta pure a noi la situazione è grave. A noi filo atlantici amici dell’algoritmo che non abbiamo mai avuto la mistica della libreria, che amavamo la Silicon Valley e l’America nel suo insieme, che avremmo dato in cambio Venezia e Firenze e Capri per San Francisco e New York e Los Angeles. Il  voltafaccia di questi  siliconvallici, un tempo tutti avocado toast e diritti civili e ora trumpiani gonfi di endorfine da palestra ci ha lasciati sgomenti. Anche perché per questi potentoni, da Jeff Bezos a Mark Zuckerberg per non parlare del capostipite, Elon Musk, sembra  che il trumpismo coincida con una fantozziana crisi di mezza età.  Tutti col trapianto di capelli (tranne Bezos, va detto), la palestra, le nuove mogli nerborute (Musk no, ha un harem a disposizione).  Zuckerberg coi suoi orologi che costano quanto un trilocale, e le catene d’oro,  è diventato il Lacerenza della Silicon Valley. 

 

Bezos, che almeno non ha fatto il trapianto, è uno dei casi più clamorosi. Uno di quelli che aveva comprato un giornale, il Washington Post, per salvarlo dalla fine della carta stampata, in nome dei sani valori democratici (era un uso dei siliconvallici, ai tempi, quando erano buoni:  la moglie di Steve Jobs   si è presa l’Atlantic, e Mark Benioff di Salesforce  Time magazine).  Adesso come si sa Bezos sta invece trasformando il Washington Post in Parioli Pocket, che prima ha  rifiutato l’endorsement cioè l’appoggio di un candidato alla Casa Bianca, nello specifico ovviamente Kamala Harris, cosa che non succedeva dagli anni Ottanta, poi tagliato le opinioni critiche verso il governo, e ancora rifiutandosi di incontrare i giornalisti che in 400 gli hanno scritto una lettera aperta. 
E naturalmente Bezos era in prima fila con tutti questi potentoni alla inaugurazione di Trump (con l’immagine subito memizzata di Zuckerberg che in preda alla suddetta crisi di mezza età sbircia nel décolleté della signora Bezos). Insomma anche Bezos è passato dal “fuck you money” al “fuck me money”, secondo la definizione dell’economista premio Nobel Paul Krugman, per noi dirimente: questi bilionari hanno talmente tanti soldi che potrebbero dire e fare ciò che vogliono (fuck you), tipo Warren Buffett che guida personalmente la sua vecchia macchina, o Bill Gates che decide di sradicare malattie in Africa. Invece scelgono di essere  “fuck me money”, con la loro  ricchezza stratosferica di  maschi (sono tutti maschi) che nonostante i dollaroni decidono di inchinarsi al potente, per  insicurezza e codardia, e così perdendosi.


 
Ma ieri in un lungo articolone sul Financial Times si cerca di farci comprendere “che ha passato” il calvo bilionario. Bezos non è cattivo, ci dice il quotidiano londinese, non è diventato repubblicano, sotto quei pettorali guizzanti batte ancora un cuore libertario, dice tra le righe il Ft! Solo che s’è messo veramente paura a ‘sto giro. Perché il primo mandato di Trump gli ha fatto passare la voglia di fare lo spavaldo. Soprattutto gli ha fatto perdere un contratto da 10 miliardi di dollari con il governo americano per la fornitura di servizi in cloud. Bezos aveva fatto causa, sostenendo che era una ritorsione per gli articoli critici proprio del suo Wp. Ma niente.


   
Ai tempi d’oro della lotta, Bezos non si era fatto intimidire: il giornale  aveva perfino creato una pagina aggiornata con le oltre trentamila bugie dette pubblicamente da Trump (chissà oggi il conteggio). Ma la guerra con l’Arancione poi aveva colpito anche la sua vita personale:  il National Enquirer, tabloid di proprietà di David Pecker, amico di Trump, lo aveva ricattato,   in possesso di foto e messaggi compromettenti con la giornalista Lauren Sánchez, ora sua futura moglie (dovrebbero sposarsi quest’estate).  Ma Bezos tirò dritto, ammise la relazione clandestina, e si separò dalla moglie del tempo  (nel 2020 alla cerimonia degli Oscar Chris Rock fece la famosa battuta, mentre il padrone di Amazon era tra il pubblico: “pensate, Bezos è talmente ricco che è rimasto l’uomo più ricco del mondo pur avendo divorziato”).  Poi arrivò pure il consueto momento del nomignolo ai nemici,  con Trump che lo cominciò a chiamare  non Jeff Bezos ma “Jeff Bozo”, Jeff tonto).   

 

E ancora  la questione spaziale. Se Musk con la sua SpaceX punta su Marte, anche Bezos ha il suo sogno astronautico, ma guarda alla luna con la sua Blue Origin. I due hanno spesso litigato, se ne son dette di tutti i colori specialmente su X, ma finché Musk era un  ricco e potente svalvolato qualunque era un conto, ora che suggerisce al già svalvolato di suo presidente è altra cosa. Come Space X per Musk, Blue Origin è poi la parte del suo impero  a cui Bezos tiene di più (basterà Freud per comprendere l’ossessione di questa nuova razza di maschioni capitalisti per i fallici razzi?). Sul ravvedimento operoso di Bezos forse pesa  pure il fatto che con tutta la nobile lotta il Wp non è mai andato a gonfie vele dopo l’acquisto nel 2013. Anche partendo dal presupposto che uno non compra un giornale per farci soldi, se una perdita di qualche milione all’anno non intimorisce Bezos, costandogli come la manutenzione di qualche sua barca, adesso che il giornale perde 100 milioni l’anno, avrà pensato, “la democrazia muore nell’oscurità”, sì, come recita il motto del giornale, ma proprio io devo pagargli le bollette della luce?

 

Poi Bezos tiene altri pensieri che non le tenebre. C'è  il pauroso antitrust che incombe, e Amazon è naturaliter il simbolo di un monopolista da spezzettare. Anche una vittoria di Biden non era certo una gran notizia per l'azienda. L’ex presidente e la sua amministrazione non hanno mai fatto mistero di avere una visione più dirigistica sulla tecnologia, dall’IA ad altri aspetti. Ma adesso che c’è una Casa Bianca in versione satrapia 2.0, non si possono correre rischi e bisogna stare schisci. 

 

Adesso, dunque, ecco un Wp non più cane da guardia ma barboncino amoroso del potere; e altri atti di sottomissione. In primo luogo un bel documentario su Melania Trump che andrà in onda su Amazon Prime, la piattaforma tv del gruppo, progetto del valore di 40 milioni di dollari, e 28 di questi milioni andranno in tasca direttamente alla first lady. Poi, la messa in onda sempre su Prime delle vecchie puntate di “The Apprentice”, il reality show condotto dallo stesso Trump qualche anno fa, in cui il sedicente imprenditore di successo testava vari giovani nelle sue aziende. Poi, Bezos ha donato un milione per  l’inaugurazione di Trump (specie di pizzo pagato da tutti i ricchi della Silicon Valley al satrapo), e ancora ha organizzato una serie di cene con tutta la famigliona dell’Arancione.  Trump sembra aver gradito la svolta e le attenzioni.   “Ho avuto modo di conoscerlo, sta facendo un bel lavoro col Washington Post, non come prima”, ha detto il presidente domenica scorsa. E te credo. Di rimando ora Bezos dice che “Trump è cambiato, è più calmo di un tempo e più smart di come uno pensa”. Vabbè.  

 

E pazienza per i 40 milioni al documentario su Melania (Disney ne aveva offerti un terzo). Magari la first lady si farà riprendere mentre zappetta l’orto della Casa Bianca come  Meghan Markle in un altro programma molto sfottuto (ma qui, chi avrà il coraggio di sfottere?). Comunque, sempre notizia di ieri, nel prossimo viaggio lunare targato Blue Origin  ci saranno solo donne, a bordo la popputa signora Sanchez (quasi signora Bezos) e la cantante Katy Perry e ben due donne nere, in una specie di nostalgia del lontano passato della Silicon Valley femminista. Sempre che Trump non se ne accorga, e Bezos/Bozo non cambi idea.

 

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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).