
(Ansa)
in francia
Leggere Revue K. per rifuggire dall'antisemitismo di nuovo imperante
Un gruppo di intellettuali ebrei francesi ha fondato la rivista online. Il progetto nasce nel 2021 e avrebbe dovuto avere vita breve, ma dopo il 7 ottobre è apparso chiaro quanto fosse necessario andare avanti
In un mondo che sta cambiando vorticosamente, in cui stiamo perdendo tutti i punti di riferimento e dobbiamo inventarcene dei nuovi, abbiamo bisogno di materiale per riflettere, per capire come mai siamo stati presi così alla sprovvista, come mai non abbiamo voluto vedere come stava cambiando tutto intorno a noi. Mentre le riflessioni serie in generale latitano ancora, un gruppo di intellettuali ebrei francesi ha fondato una rivista online, composta da saggi di media lunghezza, di lettura facile, la Revue K., che ha per sottotitolo Gli ebrei, l’Europa, il XXI secolo. Il progetto è partito nel 2021, quando già si capiva che l’emigrazione ebraica dai paesi europei per sfuggire all’antisemitismo stava ricominciando in misura significativa, quando era già evidente che i “mai più”, ripetuti in coro nelle celebrazioni della Giornata della memoria, alla prova dei fatti non contavano niente.
Nelle intenzioni dei promotori Revue K. doveva essere una rivista destinata a vita breve – tre anni – ma poi la strage del 7 ottobre ha fatto capire che era necessario continuare. La rivista è sostenuta da importanti fondazioni intellettuali – oltre al ministero della cultura francese, la Fondation pour la Mémoire de la Shoah – ed è gratuita. Esce ogni settimana e presenta tre testi inediti, anche se rimangono facilmente accessibili quelli già pubblicati. Attualmente conta fra i 20 e i 30 mila lettori al mese. Tradotta anche in inglese e spagnolo, è diretta dal giornalista Stéphane Bou e dal sociologo Danny Trom. Il titolo è un omaggio a Kafka e un evidente richiamo alla sua ricerca di identità in un momento in cui sembra sgretolarsi il nostro destino comune e in cui la nostra storia condivisa sta perdendo di senso. La Revue K. affronta infatti questioni che riguardano tutto l’occidente, dal momento che la forte ripresa di antisemitismo a cui stiamo assistendo riguarda tutti, così come ha riguardato tutti la tragedia della Shoah.
Il rapporto con gli ebrei mette alla prova le buone intenzioni, le virtù esibite con tanta sicurezza da politici e intellettuali, come l’accettazione dell’altro da sé e, soprattutto, per i cristiani, quel rapporto mette alla prova la capacità di apprezzare, stimare e forse perfino amare quello che per secoli è stato un presunto “nemico” . I due saggi di Daniel Szeftel rintracciano nella storia del secolo scorso le radici di quell’accusa di genocidio che oggi viene ripetuta a proposito di quanto avviene a Gaza. Entrambi i testi ripercorrono la nascita e l’affermarsi di una nuova demonizzazione del popolo ebraico che si sviluppa nella seconda metà del XX secolo, quando gli israeliani vengono considerati colpevoli di colonialismo, di un settler colonialism che mirerebbe alla distruzione della popolazione nativa della Palestina del mandato britannico: per l’appunto il genocidio, insomma. Accade dunque che Israele riassuma in sé tutte le colpe dell’occidente colonialista: un’accusa che si aggiunge alla crescita di antisemitismo nel mondo arabo, e che viene per così dire ravvivata dai missionari cristiani a partire dall’800 – sostenitori dell’illegittimità teologica della presenza ebraica in Palestina – per allearsi infine negli anni 30 all’antisemitismo nazista. Tuttavia la sconfitta bellica di quest’ultimo non intaccherà affatto lo zoccolo duro di ostilità anti ebraica rinfocolata dall’odio verso i sionisti arrivati in Palestina. Si produce al contrario una singolare inversione accusatoria, per cui il giudaismo e il sionismo vengono assimilati tout court al nazismo: nel 1956 Nasser parlerà infatti di “sionismo nazista”.
Gli articoli di Matthew Bolton e David Nirenberg analizzano invece gli aspri dibattiti che, dopo il 7 ottobre, hanno diviso coloro che sostenevano che l’assalto dei militanti di Hamas era in sostanza un pogrom analogo ai tanti subìti dagli ebrei per secoli nell’ Europa dell’est, e altri che invece negano risolutamente una tale analogia, non ammettendo l’esistenza di una continuità all’insegna dell’antisemitismo. Questi ultimi sostengono altresì che lo spirito genocidario sarebbe presente negli israeliani e non nei palestinesi, arrivando a denunciare Israele come colpevole di un “caso scuola di genocidio”. Naturale che da ciò nasca l’accusa ai governi succedutisi nel tempo di aver forgiato un’identità nazionale fondata sulla paura perpetua e la vittimizzazione.
Il pensiero woke ha provocato una accentuazione nella, chiamiamola così, interpretazione all’insegna del colonialismo di Israele e, quindi, di tutti gli ebrei in generale, accusati di “razzismo strutturale” in quanto bianchi. Di conseguenza il nuovo antisemitismo reclama un carattere antiegemonico. Solo l’antisemitismo di sempre spiegherebbe invece – secondo altri – la strage del 7 ottobre: la ricomparsa di qualcosa di inatteso, che lo stato di Israele credeva morto da tempo, perché era nato proprio per rendere questa violenza impossibile. Si tratta dunque di realtà storiche che questa rivista aiuta a comprendere meglio, ad affrontare con un occhio critico che ci coinvolge tutti. Perché, come scrive un altro autore della rivista, Bruno Karsenti, a proposito dell’antisemitismo che sta riemergendo in Europa “ritengo che ogni cittadino europeo, per poco che sia sincero sulla propria esperienza attuale e che sia cosciente della propria storia culturale, debba sentire il carattere problematico”.