“Basta distorsioni”

Fermare la politica delle bugie. Così il Giappone ha smentito la Cina

Giulia Pompili

Pechino manipola un comunicato su un incontro con il premier giapponese Ishiba. Per la prima volta Tokyo risponde alla “sintesi alla cinese” di un incontro politico

Durante il fine settimana è successo qualcosa di inedito fra Giappone e Cina, un episodio piccolo ma rappresentativo dei metodi dei regimi autoritari e del contenimento che alcune democrazie liberali iniziano a mettere in atto. Sabato scorso il ministro degli Esteri cinese Wang Yi e il suo omologo sudcoreano Cho Tae-yul erano a Tokyo, ospiti del capo della diplomazia nipponica, Takeshi Iwaya, per un vertice trilaterale molto importante fra paesi che hanno tradizionalmente un rapporto complicato tra loro, che serviva ufficialmente a “ricostruire la fiducia reciproca”. Il giorno prima, Wang era stato ricevuto dal primo ministro giapponese Shigeru Ishiba.

  

Finito il breve incontro fra Ishiba e Wang, sia Tokyo sia Pechino hanno pubblicato i loro rispettivi comunicati. Solo che, come avviene spesso, quello di Pechino era particolarmente fantasioso. Secondo il comunicato del ministero degli Esteri cinese, Ishiba avrebbe detto a Wang che “il Giappone rispetta le posizioni elaborate dalla parte cinese”, una dichiarazione che secondo Tokyo, però, Ishiba non avrebbe mai fatto. Ma per la prima volta, il Giappone ha protestato formalmente: poco dopo, il ministero degli Esteri ha emesso un altro comunicato spiegando di aver chiesto “di cancellare immediatamente la dichiarazione che non riflette la verità. E’ deplorevole che sia stata riportata una dichiarazione così scorretta”. Ieri la Cina non aveva ancora cancellato un bel niente. Può sembrare una questione trascurabile, ma non lo è: in un periodo storico caotico, in cui la verità è annacquata anche dagli alleati di cui abbiamo tradizionalmente più fiducia, il governo nipponico ha cercato di riaffermare il principio di non manipolazione che per lungo tempo, per non urtare Pechino, era stato trascurato. Nella fattispecie Tokyo spiega che non ha mai concesso il beneficio del dubbio alle rivendicazioni cinesi, anzi non c’è alcuno spazio di ascolto o dialogo quando si tratta di “posizioni cinesi” che rivendicano interi territori e acque territoriali altrui.

 
Il problema è che è successo spesso che la Cina rielaborasse i bilaterali con evidenti omissioni, oppure con dichiarazioni espresse in modo indiretto e per nulla aderenti alle parole effettivamente scambiate nel dialogo.  La versione cinese di un incontro politico è quasi sempre diversa da quella dell’altro partecipante, e fu un problema in cui incappò, per esempio, anche l’ex presidente del Consiglio Mario Draghi durante la sua presidenza di turno del G20. Ancora oggi i diplomatici italiani parlano di “sintesi alla cinese”, quasi un genere letterario. Il presidente del Senato Ignazio La Russa, in visita a Pechino fino al 27 marzo, secondo il comunicato ufficiale cinese diffuso ieri avrebbe ricevuto una lunga lezione da Zhao Leji, presidente del Comitato permanente dell’Assemblea nazionale del popolo, sui rapporti bilaterali, alla quale La Russa avrebbe risposto soltanto che “la cooperazione Italia-Cina può apportare nuovi contributi alla pace e alla stabilità nel mondo” e che “l’Italia aderisce al principio di una sola Cina”. Chissà se è vero.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.