
Recep Tayyip Erdogan (Ansa)
reportage da Diyarbakir
Le proteste in Turchia e la fiducia tradita dei curdi
Dopo l’arresto del sindaco di Istanbul l’opposizione si compatta, mentre la crisi politica si intreccia con il fragile processo di pace con i curdi. Il piano Erdogan per ricandidarsi una volta scaduto l'attuale mandato
Diyarbakir. Prosegue in Turchia la crisi politica generata dall’arresto del sindaco di Istanbul, Ekrem Imamoglu. Trasferito nel carcere di Silivri dopo che il tribunale lo ha rinviato a giudizio in merito alle accuse di corruzione, domenica Imamoglu ha ricevuto il plebiscito popolare di circa 15 milioni di turchi che lo hanno votato alle primarie del suo partito, il Partito repubblicano del popolo (Chp). A Istanbul e nelle altre città del paese le manifestazioni non si fermano e la mobilitazione popolare sta agendo da aggregatore delle varie anime dell’opposizione e della società civile. L’altro ieri sera sul palco a Saraçhane, l’epicentro delle proteste, vi era anche il coleader del partito filocurdo Dem, Tuncer Bakirhan, secondo cui l’arresto di Imamoglu rappresenta un colpo di stato civile che “danneggia lo spirito di pace”. Il riferimento è al recente avvio del processo di pacificazione tra il governo e il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), in cui il Dem gioca un ruolo cruciale per arrivare alla conclusione di un conflitto che dura da quarant’anni.
Le ravvicinate tempistiche tra l’avvio del processo di pace e l’arresto del sindaco non sono casuali. Venerdì scorso cadevano i festeggiamenti di Newroz, l’evento simbolo dell’identità culturale curda che celebra l’arrivo della primavera. Diyarbakir, principale città a maggioranza curda nel sudest della Turchia, ha ospitato le celebrazioni ufficiali. La città porta ancora le cicatrici del fallimento dell’ultimo processo di pace del 2015 e il ricordo funge da monito per comprendere l’importanza della posta in gioco. Alcune aree di Sur, il centro storico dentro le mura antiche, sono ancora off limits, gli edifici distrutti dalla guerriglia urbana che seguì al tracollo dei negoziati. Il weekend prima del suo arresto, in occasione di un comizio elettorale proprio a Diyarbakir, Imamoglu ha ricevuto molti applausi dopo aver augurato un felice Newroz in curdo, gesto che ad Ankara non era passato inosservato. Il governo mira infatti a ridurre la convergenza di interessi tra i due principali partiti di opposizione, puntando a esacerbare le tensioni tra le rispettive basi. Gli studenti oggi in piazza si definiscono “figli e soldati” di Ataturk, fondatore del Chp, un appello in cui i curdi non si riconoscono visti i sanguinosi precedenti.
Per il Dem, Newroz ha rappresentato l’occasione per veicolare al proprio elettorato l’importanza del momento storico che la Turchia si appresta a vivere. Centinaia di migliaia di persone in abiti tradizionali hanno affollato il Newroz Park, una piazza piena di speranze e aspettative, danzando per ore la tradizionale danza halay. L’effige di Abdullah Ocalan, leader del Pkk in carcere dal 1999, è ovunque, sulle bandiere e sui manifesti. Tutti si aspettavano un suo nuovo messaggio, dopo che un mese fa ha chiesto lo scioglimento dell’organizzazione da lui stesso guidata e la fine della lotta armata. Alla fine, questo messaggio non c’è stato. “Molti credevano che questo potesse essere un punto di svolta storico per la pace, un nuovo inizio”, racconta Sevilay Çelenk, deputata in Parlamento del Dem eletta nella circoscrizione di Diyarbakir – tuttavia, questa speranza è stata relativamente smorzata dagli eventi e dalle tensioni recenti che hanno coinvolto il sindaco Imamoglu”.
Tra i curdi accorsi a Diyarbakir per Newroz permane una sensazione di forte incertezza. Per molti, l’assenza di chiarimenti sui termini delle negoziazioni lascia aperti una serie di punti interrogativi. Nel frattempo il governo nega l’esistenza di qualsiasi negoziato: lo scioglimento del Pkk è considerato una resa incondizionata. Erdogan ha però bisogno del supporto del Dem per portare avanti i suoi piani di riforma costituzionale, al fine di potersi ricandidare una volta scaduto l’attuale mandato. Questioni come il riconoscimento ufficiale della lingua curda, il suo utilizzo nei servizi pubblici e la definizione di cittadinanza – al centro dello scorso processo di pace – non sono a oggi mai state menzionate pubblicamente. Intervistato nel suo studio, Reha Ruhaviouglu, direttore del Kurdish Studies Center di Diyarbakir, sostiene che per normalizzare l’attuale processo agli occhi dei curdi, e ripristinare la loro fiducia nelle intenzioni del governo, servano dei segnali distensivi. “Su tutti, la liberazione di Selahattin Demirtas (in prigione dal 2016, ndr) e degli altri prigionieri politici”, dice Ruhaviouglu, “oltre alla fine della politica dei kayyım”. Si tratta della pratica di rimuovere sindaci eletti con accuse di terrorismo e sostituirli con funzionari statali. Nei fatti, questo ha portato alla criminalizzazione delle attività politiche del Dem e ne impedisce l’amministrazione dei territori. Dalle ultime elezioni, il governo ha utilizzato questo strumento nelle città a maggioranza curda di Hakkâri, Van, Mardin e Batman.
Comunque, anche a fronte delle oggettive difficoltà, per Sevilay Çelenk la domanda per una soluzione al conflitto è ormai inevitabile. “Nonostante il pragmatismo e le inversioni di rotta siano diventate prassi politiche a livello globale, queste rimangono instabili nel lungo periodo. Pace, sicurezza e unità saranno raggiungibili solo attraverso l’istituzione di un sistema democratico inclusivo”, sostiene la deputata. In questo senso, gli sviluppi domestici e internazionali sembrano spingere verso questa direzione. Devlet Bahçeli, leader del Partito del Movimento Nazionalista (Mhp), braccio politico dei Lupi Grigi, si è posto alla testa del processo e ha parlato della necessità di applicare un “nuovo paradigma”, una richiesta accolta favorevolmente non solo dalla popolazione curda, ma anche da ampie fasce dell’opinione pubblica. Al contempo, in Siria, l’accordo firmato dai curdi del Rojava con il governo di Damasco punta all’integrazione delle forze curdo-siriane nelle istituzioni nazionali, accogliendo i diktat di sicurezza espressi da Ankara. Erdogan, maestro di equilibrismo e sopravvivenza, sa che la sua sopravvivenza passa dal trovare un equilibrio tra queste forze, mantenendo stretto nelle sue mani il ruolo di kingmaker.