
La protesta
Gaza vuole essere liberata da Hamas
La lotta dei palestinesi fuori e dentro e la Striscia contro i terroristi: "Le persone hanno raggiunto il punto di non ritorno ed è sempre più chiaro a tutti che paghiamo il prezzo di una guerra che ha iniziato Hamas con una decisione unilaterale", spiega un insegnante palestinese
Tel Aviv. Mentre siamo abituati alle immagini di fiumi di israeliani che si riversano in strada contro le politiche del governo Netanyahu, da due giorni a Gaza si assiste a uno scenario insolito: centinaia di palestinesi protestano a viso scoperto contro Hamas. Le manifestazioni sono iniziate martedì a Beit Lahia, nel nord della Striscia, l’area più devastata dall’operazione militare israeliana. L’innesco è stata la comunicazione dell’Idf di iniziare a evacuare – nuovamente – la città, in vista di un possibile ritorno delle truppe israeliane via terra, dopo la ripresa dei bombardamenti il 18 marzo in seguito al fallimento della trattativa che avrebbe dovuto portare al rilascio di altri 11 dei 59 ostaggi israeliani ancora a Gaza, in parallelo al prolungamento della tregua. “La protesta è stata piuttosto spontanea, ed è il risultato dell’immensa frustrazione che viviamo a Gaza”, dice al Foglio Ahmed Al-Radi’aa, insegnante di 47 anni che ha perso diversi famigliari in un bombardamento israeliano agli inizi della guerra, e che martedì si è presentato al raduno anti Hamas di fronte all’Ospedale indonesiano a Beit Lahia. “Le persone hanno raggiunto il punto di non ritorno ed è sempre più chiaro a tutti che paghiamo il prezzo di una guerra che ha iniziato Hamas con una decisione unilaterale. Non voglio perdere nessun altro e scendo in piazza perché chiedo che Hamas esca completamente di scena, con le sue armi e il suo governo politico”. Uomini di Hamas hanno manganellato i manifestanti per disperdere i raduni (che si sono poi estesi spontaneamente anche in altre zone della Striscia di Gaza), ma senza aprire il fuoco, racconta Ahmed. “E’ stata una sorpresa anche per loro e devono ancora capire come gestire la cosa”. Quello che si è attivato nell’immediato è invece un altro braccio fondamentale della forza di Hamas, ossia la macchina della propaganda: “Hamas sta già cercando di distorcere la narrazione, sostenendo che le dimostrazioni sono contro Israele piuttosto che contro l’organizzazione, tentando di confondere”, spiega Ahmed. “Ma voglio chiarire al mondo: queste proteste sono contro l’oppressione, la tirannia e il furto di aiuti e mezzi di sostentamento diretti ai civili da parte di Hamas”.
Un giro tra i principali canali social di reporter apparentemente neutrali, ma in realtà allineati con Hamas – come il popolare e multilingue Gaza Now, o il canale di Muthanna al Najjar (il volto che scioccò gli israeliani il 7 ottobre quando, entrato nel kibbutz Nir Oz con gli assalitori palestinesi, faceva la cronaca live dei rapimenti della famiglia Bibas e del dodicenne Erez Calderon) – rende l’idea di come la narrazione sia manipolata: nessun cenno alle voci contro Hamas. Ovviamente, il grande e strategico alleato dell’operazione è Al Jazeera, la cui prima menzione delle proteste è arrivata dopo 24 ore, e anche in quel caso, senza fare riferimento a Hamas e senza raccogliere voci sul campo. Un video ripreso dal reporter Mahmoud Hellas mostra la folla che urla: “Dov’è la stampa? Dov’è Anas al Sharif, il corrispondente di Al Jazeera? Ah, è entrato all’ospedale pur di non coprire questo evento!”. La folla urla “Barra (fuori) Hamas, barra Al Jazeera”. Abu Obaida, il portavoce delle Brigate Ezzedin al Qassam di Hamas, si arrampica sugli specchi della “campagna di disinformazione”: in un lungo comunicato, sostiene che “è in corso una sistematica campagna coordinata di incitamento contro la resistenza palestinese” (ossia Hamas) riconducibile ai “server del servizio di intelligence palestinese a Ramallah”. Abu Obaida non manca mai di ricordare che per Hamas Fatah sia un nemico forse ancora più acerrimo di Israele. La posizione di Ramallah l’ha espressa Mahmoud al Habbash, consigliere di Abu Mazen, in un’intervista al canale saudita al Hadath: “Le proteste a Beit Lahia sono un urlo della gente di Gaza contro le politiche di Hamas”.
Una presenza significativa che segnalano diversi dei partecipanti alle manifestazioni è quella di alcuni mukhtar, i potenti capi clan famigliari, sia a Beit Lahia sia a Khan Younis, che hanno apertamente chiesto la resa di Hamas. Parliamo degli stessi clan, come i Doghmoush o i Barawi, con cui, oltre un anno fa, l’esercito israeliano ha cercato di stipulare degli accordi di cooperazione per la gestione degli aiuti umanitari alla popolazione palestinese, operazione rivelatasi fallimentare per il timore di ripercussioni da parte di Hamas, che infatti non hanno esitato ad arrivare quando a maggio il capo del clan Doghmoush è stato ucciso in condizioni misteriose.
Da Gaza City, Said (nome fittizio, a simboleggiare quanto la strada sia ancora in salita), in una conversazione con il Foglio nei giorni precedenti l’inizio delle manifestazioni ha spiegato quanto la volontà di ribellarsi a Hamas sia aumentata tra la popolazione civile, ma allo stesso tempo il timore sia ancora alto. “Ci sono grosse sacche di dissenso, ma anche di recente chi ha solo provato a parlare sui social media è stato gambizzato”. Come nel caso di Amin Abed, ridotto quasi in fin di vita dalla polizia di Hamas lo scorso luglio, che è riuscito, grazie all’intervento di una rete di attivisti fuori dalla Striscia, a essere evacuato e ospedalizzato negli Emirati Arabi Uniti. O di Ziad Abu Haya, ucciso con un colpo in testa davanti ai suoi figli a dicembre. Said sostiene che metà della popolazione della Striscia vorrebbe che la comunità internazionale adottasse il “tahjir”, il termine con cui a Gaza si fa riferimento al mai ben definito piano di Trump di evacuazione e che loro interpretano come “emigrazione volontaria”: “L’unica soluzione per noi in questo momento è uscire: se i paesi arabi aprissero le porte, come è stato per i siriani durante la guerra civile, ci fionderemmo. Invece l’Egitto chiedeva 5.000 dollari a persona solo per uscire da Gaza”.
Negli ultimi mesi, è emersa in maniera più organica e pubblica anche una serie di iniziative di dissidenti che vivono all’estero. Tra queste, il Center for Peace Communication, che raduna dissidenti da tutto il mondo arabo e nello specifico connette voci di dissenso da dentro Gaza con reporter all’estero in mancanza di stampa indipendente, e l’organizzazione Realign for Palestine. Questa è stata presentata due settimane fa a Washington da Ahmed Fouad AlKhatib, che nel 2005, a 15 anni, è andato negli Stati Uniti per uno scambio di studenti, e non ha fatto più rientro a Gaza dopo la vittoria di Hamas alle elezioni del 2006. Ahmed ha perso 32 famigliari nella Striscia durante la guerra in corso. Insieme a lui anche Kamel Masharawi, che è riuscito a lasciare Gaza nei mesi scorsi e Hamza Howidi, che ha lasciato Gaza un mese prima della guerra e oggi vive in Germania. Kamel e Hamza, 28enni, hanno preso parte alle proteste del movimento “Bidna Na’ish” (“Vogliamo vivere”), nato nel 2019 come una sorta di primavera araba di Gaza che venne repressa molto rapidamente da Hamas, e sono stati incarcerati e torturati due volte. In quanto attivisti che vivono all’estero, raccontano, si trovano ad affrontare una doppia sfida, quella per la narrazione, in particolare sui social media.
Dopo essere stati incarcerati a Gaza perché traditori, o aver pagato il prezzo della guerra con Israele, ora che vivono all’estero questi dissidenti sono additati come traditori da chi sostiene di difendere la causa palestinese: è il paradosso che sollevano nel loro messaggio. “E’ come stare tra l’incudine e il martello” dice Ahmed, dove l’incudine è il giogo di Hamas da cui sono scappati, e il martello è il cosiddetto mondo pro-pal con cui si trovano in disaccordo proprio nell’occidente dove hanno trovato rifugio. Per il fatto che, criticando Hamas, osano “lavare i panni sporchi in pubblico” sono bollati come “palestinesi al servizio di Israele”. “Ci sono così tanti tabù”, spiega Hamza in conversazione con il Foglio. “E’ vietato criticare ‘la resistenza palestinese’ anche quando commette atrocità, non solo contro gli israeliani, ma contro i palestinesi stessi”. Ahmed dice che “c’è una dissonanza incredibile tra la narrazione nel mondo occidentale – con gli slogan ‘dal fiume al mare’ o ‘sionismo è nazismo’, che legittimano Hamas – e quello che invece pensano i palestinesi dentro Gaza, che vorrebbero liberarsi di questo regime che li ha portati al collasso”. “E’ facile parlare con certi slogan quando non conosci la realtà di Gaza e non rischi la vita: il mondo pro-pal gioca sulla pelle dei palestinesi”, aggiunge Kamel. “Il nostro obiettivo è portare avanti una nuova narrazione pubblica”, spiega Hamza, “battersi per il diritto all’autodeterminazione per la gente di Gaza, ma liberi da Hamas, dal Qatar, dall’Iran”. Uno dei progetti su cui stanno lavorando è una Radio Free Gaza, come avviene con Cuba e l’Iran. A un anno e mezzo dall’inizio di questa guerra devastante, e a fronte delle minacce negli ultimi giorni del ministro della Difesa israeliano Israel Katz di una possibile rioccupazione di alcune zone della Striscia, sembra che il muro della paura si stia quantomeno incrinando.