La protesta di Gaza parte da un punto fermo: i terroristi rubano e uccidono, devono andarsene

Karim ha visto per mesi i camion carichi di aiuti umanitari entrare dentro la Striscia di Gaza e per mesi, nonostante sapesse che quegli aiuti erano destinati a cittadini che come lui avevano perso molto se non tutto, è stato costretto a comprare: “Me li vendevano direttamente con l'involucro su cui c'era scritto not for sale”

Micol Flammini

Le manifestazioni dei palestinesi nella Striscia, che Hamas oscura e al Jazeera camuffa, hanno obiettivi concreti: gli aiuti umanitari che i terroristi confiscano e rivendono. Saied e Karim: siamo pronti a lasciare Gaza, ma è Hamas che deve essere cacciato

Karim ha visto per mesi i camion carichi di aiuti umanitari entrare dentro la Striscia di Gaza e per mesi, nonostante sapesse che quegli aiuti erano destinati a cittadini che come lui avevano perso molto se non tutto, è stato costretto a comprare cibo e acqua: “Me li vendevano direttamente con l’involucro su cui c’era scritto not for sale”, non in vendita. Sono gli uomini di Hamas a vendere i prodotti non in vendita seguendo una procedura semplice: i camion arrivano, loro si appropriano degli aiuti umanitari, si incaricano della distribuzione e trovano il modo di farci i soldi. Karim è un nome di fantasia, parla collegato dalla Striscia, non lontano dal mare. Ha partecipato alle manifestazioni contro Hamas che in questi giorni si stanno animando in vari punti di Gaza. “Ci sono state proteste anche dopo il 7 ottobre, ma questa volta è diverso. La gente sa dove è finito il cibo, dove sono finite le medicine. Sa che è  colpa di Hamas e non ne può più. Sa che, se manca tutto, la responsabilità è  di Hamas e che i bombardamenti sono ricominciati perché Hamas non negozia”. Il pensiero di Karim forse non è comune alla maggior parte dei palestinesi di Gaza, ma vede le proteste nella Striscia come un segnale: “Sono manifestazioni spontanee, non sono organizzate, non ci sono leader. La gente scende in strada e per la prima volta ha il coraggio di urlare a quelli di Hamas che sono dei terroristi”. E’ difficile misurare la capacità del fenomeno, le proteste sono in varie città e anche Saied, che parla da una località diversa da quella di Karim, definisce le manifestazioni come la reazione a “Hamas che controlla e confisca. Sono il governo e nessuno li può fermare”. Anche Saied è un nome di fantasia e se come Karim preferisce non far sapere come si chiama,  da dove parla,  cosa faceva prima di ritrovarsi sfollato lontano da casa sua è perché chi scende in strada e ha il coraggio di urlare gli slogan della protesta appena esce dalla folla dei cortei  ha paura della riconoscibilità e quindi della repressione. Hamas ha iniziato una doppia rappresaglia contro chi manifesta: la prima è fisica, fatta di botte e violenza, con manifestanti che vengono isolati, accerchiati e picchiati a mani nude o con armi. L’altra invece è propagandistica e mira a convincere che soltanto i collaborazionisti protestano contro il regime, soltanto gli agenti stranieri hanno interesse a scendere in strada e gridare “Fuori Hamas”, “Hamas terrorista”, quindi cerca di far sentire soli i manifestanti e  creare diffidenza tra i palestinesi che ancora non sono scesi in strada. Se a livello internazionale questi cortei non hanno ricevuto molta attenzione è anche perché al Jazeera, l’emittente-regista di tutto quello che avviene dentro la Striscia, ha deciso dapprima di non occuparsene, poi ha fabbricato la sua propaganda per tramutare la protesta contro Hamas in una manifestazione contro Israele. Saied e Karim credono che la repressione può solo farsi più intensa, ma anche i motivi per manifestare crescono: “La gente protesta per questioni concrete, quindi fino a quando non avranno quello che chiedono, ora che hanno iniziato a pretendere e a sfidare andranno avanti.  Nello stesso tempo Hamas non dimentica la vendetta”, Karim spiega che il gruppo oltre a non dare valore alla vita umana è anche convinto di essere l’esecutore della volontà divina in terra.(segue nell’inserto IV)  
Karim sembra avere una visione più politica di quello che accade, parla senza tentennare di un futuro di convivenza. Saied rimane vago, parla soltanto del presente. Tutti e due dicono di non credere né in Hamas né in Fatah “che parla di pace ma non segue l’agenda della pace”, sperano che forse dalle proteste un’alternativa possa uscire. Sono però consapevoli che non è il momento, è soltanto l’inizio e tutto diventerà sempre più pericoloso. Le loro parole però non trovano conferme nei sondaggi che  mostrano Hamas piuttosto popolare tra la popolazione di Gaza. Karim non ci crede, non crede neppure che sia corretto definire “civili” i palestinesi senza divisa che hanno partecipato al massacro del 7 ottobre: “Non uccidi e non rapisci se non sei uno di loro. Non tieni in casa un ostaggio se non sei uno di loro. Spesso la parola civili è usata a sproposito, è Hamas a volerlo”. 
Entrambi ricordano perfettamente il loro 7 ottobre, quando in tutta la Striscia si diffuse la notizia dell’attacco ai kibbutz, si sentirono i primi spari. Tutti e due quel giorno hanno pensato che Israele avrebbe fatto quello che ha fatto invadendo e soprattutto bombardando, bombardando, bombardando. “Ho pensato che me ne sarei voluto andare via subito. Se avessi avuto un aeroporto lo avrei fatto immediatamente”, dice Karim, pronto ad andare via anche adesso. Neppure per Saied il trasferimento da Gaza è un tabù, pongono però tutti e due le stesse domande: andarsene per stare dove? Chi ci accoglierebbe, un paese che può darci un futuro o un paese povero, in guerra, destabilizzato? La comunità internazionale lo permetterebbe? Accanto alle domande, c’è un punto fermo per tutti e due e Saied lo esprime in modo netto: “Sì me ne andrei. Fino a quando ci sarà Hamas desidereremo andarcene. Ma non è giusto, è Hamas che deve essere mandato fuori da Gaza, non noi. Soltanto così la Striscia può cambiare”. 
 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)