
Continuano i bombardamenti americani contro gli houthi in Yemen (foto Getty)
i rischi dei boots on the ground
I raid contro gli houthi funzionano ma non troppo. L'idea di una missione di terra
Fuori dalle chat Signal gli americani studiano alternative per vincere la resilienza dei terroristi che ripetono: "Non ci fermeremo". Il precedente della Prima guerra del Golfo
“Ora gli houthi vogliono la pace perché attorno a sé vedono l’inferno”, ha detto tre giorni fa Donald Trump rivendicando l’offensiva aerea degli americani contro i terroristi dello Yemen. Quasi a ridimensionare lo scandalo delle chat su Signal dei suoi collaboratori, che condividevano i dettagli dei raid contro gli houthi su una app commerciale di messaggistica, il presidente americano ha tentato di rassicurare: l’operazione sta dando i suoi frutti. I fatti hanno smentito le sue parole dopo poche ore, quando due missili lanciati dallo Yemen sono arrivati nei cieli di Israele.
Seppur sia stato sventato, l’attacco è stato una ulteriore escalation, perché mai prima d’ora gli houthi avevano lanciato due missili contemporaneamente contro lo stato ebraico. Gli attacchi sono lanciati in momenti precisi, la mattina e il pomeriggio a ridosso dell’orario di entrata e uscita dalle scuole, con l’intento di massimizzare il numero delle vittime potenziali. “Non ci fermeremo finché Israele non bloccherà la guerra a Gaza”, promettono gli houthi, che dal 7 ottobre hanno limitato l’accesso allo stretto di Bab el Mandab attaccando navi israeliane e occidentali. Ieri, Abdulmalik al Houthi ha ribadito che “è impossibile per gli Stati Uniti modificare la nostra presa di posizione e quella del nostro popolo. Non importa quanto diventi forte la loro aggressione. Non avrà mai un impatto su di noi”.
I target dei missili lanciati dagli americani negli ultimi dieci giorni sono i depositi di munizioni, le postazioni di lancio missilistiche e alcune caserme. Mohammed Basha, esperto di Yemen, ha notato che gli attacchi hanno preso di mira ufficiali e sottufficiali di medio rango, la “manovalanza” che conosce i sistemi d’arma e sa come manovrarli. L’obiettivo, secondo l’analista, sarebbe di limitare la capacità operativa degli houthi, piuttosto che concentrarsi su leader di alto livello, la cui eliminazione avrebbe solamente un valore simbolico.
Finora però i risultati sono stati limitati dalla geografia dello Yemen. Il territorio montuoso e impervio che taglia in due l’ovest controllato dai terroristi favorisce la loro capacità di nascondere gli arsenali. E’ la stessa difficoltà che, dal 2015, hanno incontrato le forze aeree dell’Arabia Saudita, i cui bombardamenti a tappeto hanno provocato decine di migliaia di morti, molti dei quali civili, senza riuscire però a sconfiggere i terroristi.
I dubbi sull’efficacia dell’approccio “dall’alto” restano e a Washington ci si interroga sull’ipotesi dell’invio di forze di terra. Secondo molti esperti, non ci sono alternative se si intende sradicare gli houthi dalla costa e ristabilire la libertà di navigazione nel Mar Rosso. L’idea non è stata scartata dal Pentagono. “Non posso dire che abbiamo già delle truppe sul terreno, né che stiamo per inviarne. Non posso esprimermi perché da comandante so quanto è importante lasciare che il nemico faccia delle congetture”, ha detto il portavoce della Difesa americana, Sean Parnell, lo scorso 17 marzo. Alcuni mesi fa, hanno cominciato a circolare alcune speculazioni sulla presenza delle forze speciali americane in Yemen. In un’audizione al Congresso, il 7 dicembre, la Casa Bianca ammise che “un piccolo gruppo di militari è presente nel paese per condurre operazioni contro al Qaida”. Il Pentagono però smentì il governo: “Non vogliamo innescare una guerra regionale”, spiegò un portavoce.
Le insidie nell’invio di boots on the ground in Yemen sarebbero molte. “C’è chi pensa che basti mandare qualcuno lì, prendere tutti quelli che di cognome fanno ‘Houthi’ e che così vinceremo – ha ironizzato l’ex ammiraglio americano Kevin Donegan – Non è così. Sono resistenti, sono più forti di prima”. Il problema principale è l’identificazione dei target a terra, in particolare le piattaforme missilistiche mobili. Una difficoltà analoga si presentò con la Prima guerra del Golfo, nel 1991, quando Saddam Hussein lanciò un attacco missilistico contro Israele per costringerlo a entrare in guerra sfaldando la coalizione di paesi arabi che si era opposta all’occupazione del Kuwait. Gli americani convinsero Israele a temporeggiare e inviarono in Iraq alcune squadre di corpi speciali per identificare i bersagli al suolo. L’operazione fu complessa e con risultati non del tutto soddisfacenti. Replicarla oggi in un ambiente come quello yemenita potrebbe essere ancora più complesso.
Secondo Gregory D. Johnsen, che in passato ha fatto parte del gruppo di esperti dell’Onu per lo Yemen, sul tavolo ci sarebbero due alternative. La prima, la più drastica, sarebbe quella di colpire direttamente l’Iran che arma i terroristi yemeniti, mentre la seconda – come ha scritto di recente in un report pubblicato dall’Arab Gulf States Institute di Washington – sarebbe quella di armare la coalizione yemenita anti houthi. L’ipotesi è stata sponsorizzata da alcuni esponenti del Consiglio di transizione del sud durante una loro visita a Londra all’inizio di marzo. “Non devono essere necessariamente americani o inglesi a combattere a terra – ha detto Amr al Bidh, rappresentante della coalizione yemenita anti houthi – Abbiamo le forze per farlo noi, abbiamo esperienza contro gli houthi. Sosteneteci”.